STORIA E MEDICINA NELLA PIANA DELLO SCAMANDRO

Claudio Bevilacqua

medico legale e del lavoro

Presidente del Conservatorio di Storia Medica Giuliana

 

 

 

 

            Circa novant’anni orsono, usciva, per gli stampi della Leonardo da Vinci, in Roma, un pregevole lavoro di Quirino Celli sulla medicina greca nelle tradizioni mitologiche ed omeriche.

            L’autore era un giovane medico, con una preparazione umanistica che avrebbe fatto arrossire i liceali d’oggi e molti loro docenti, se anni di degrado culturale non avessero lasciato ad essi il sereno convincimento che ciò che ignorano non esiste o, comunque, non serve.

            Il Celli, medico ed umanista, offre con la sua opera interessanti spunti di considerazione allo storico medico, che nei poemi omerici, specie l’Iliade, può trovare non pochi riferimenti alla patologia ed all’arte sanitaria.

            Il loro apprezzamento, però, richiede un preliminare esame del poema sotto il profilo della realtà storica e culturale dell’epoca in cui è stato scritto e di quella, alla quale i suoi contenuti si riferiscono.

            Si dice che l’autore dei poemi sia stato Omero, poeta greco, nato verso il IX secolo a.C., pare a Smirne, città eolica dell’Asia Minore, divenuta ionica ai suoi tempi, talché in questo dialetto egli scrisse le sue opere anche se in esse molti sono i connotati eolici.

            L’incertezza sulla città natale di Omero e sulla sua vita, la leggenda che lo vuole cantore cieco e mendico e le caratteristiche dei poemi a lui attribuiti hanno fatto sorgere in epoca alessandrina, verso il IV secolo a.C., la cosiddetta questione omerica.

            Comunque, Omero, posto che sia esistito, deve essere vissuto agli inizi della civiltà greca, quando quella egea, che egli canta nei suoi poemi, era già tramontata.

            C’è chi lo vuole aedo, cantore di gesta epiche, e chi rapsode, narratore delle stesse: certamente egli non fu un poeta storico in senso stretto.

            La questione omerica sorse con l’ipotesi che Iliade e Odissea fossero opera di diverso autore. In tempi moderni G.B. Vico (1668-1744) sostenne addirittura che Omero non fosse mai esistito, ma fosse il simbolo dell’intero popolo greco e che i due poemi risultassero dall’insieme di canti diversi. Su tale scia, pure Wolf e Nitschz negheranno la storicità di Omero.

            Oggi, invece, tende a prevalere una visione unitaria delle due opere, per cui si ritiene che Omero abbia scritto sia l’Iliade che l’Odissea o quantomeno l’Iliade (più epica), mentre l’Odissea (più moderna ed umana) sarebbe stata scritta da un autore più tardo o da Omero nella sua vecchiaia.

            Quasi sicuramente i due poemi sono di autore diverso, il quale avrebbe ripreso i temi di vecchie canzoni epiche eoliche, subendo a sua volta, “rielaborazioni” da parte di successivi autori; infatti, solo nel 520 a.C. i poemi omerici trovarono l’attuale stesura, per ordine di Pisistrato, tiranno di Atene.

 

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            La Grecia antica, abitata nella preistoria da popolazioni neolitiche, subì nel terzo millennio a.C., in momenti diversi, la migrazione di varie popolazioni (Lelegi, Cari, Frigi, Fenici, Pelasgi, Eoli, Ioni ed Achei), alle quali si deve la civiltà egea.

            Questa civiltà, detta anche pregreca, durerà dal 2500 al 1000 a.C., e risulterà di tre periodi: antico (2500-2000 a.C.); medio o cretese o minoico (2000-1500 a.C.) con centro a Creta; tardo o miceneo (1500-1000 a.C.) con centro a Micene. Ed è alla fine di questo periodo che viene inventata in Grecia la scrittura, usando un alfabeto semitico, derivato da quello fenicio.

            Verso il 1200 a.C. inizia la colonizzazione ellenica dell’Asia Minore ed in tale circostanza scoppia la guerra di Troia.

            Verso il 1000 a.C. decadono le forme monarchiche (Argo, Atene, Sparta, Tebe), tipiche della civiltà egea, e subentrano governi aristocratici. In questo periodo si hanno le invasioni, dal nord, dei Dori, Beoti e Tessali, popoli semibarbarici, che in parte sottomettono le popolazioni locali e in parte le spingono verso altri territori, per cui gli Ioni occupano l’Attica, gli Eoli la Tessaglia, la Beozia e l’Etolia e gli Achei l’Acaia e l’Elide.

            Finisce, così, la civiltà egea e per due, tre secoli si avrà quel decadimento civile e culturale, che passa sotto il nome di medioevo ellenico.

            Ad esso subentrerà la civiltà greca, che, dai fasti ateniesi alla floridezza delle colonie, dalle guerre persiane alla lotta fra Atene e Sparta, dall’impero macedone alla fine dell’indipendenza ad opera di Roma (146 a.C.), scriverà pagine indelebili nel divenire civile e sociale dell’uomo.

            Sotto il profilo delle lettere, questa civiltà, che inizia verso l’800 a.C., riconosce quattro periodi: l’ellenico, l’attico, l’ellenistico ed il romano. Essa, tuttavia, sarà preceduta, durante il medioevo ellenico, da una produzione epico-lirica di argomento sacro, andata completamente perduta, e da canzoni epiche eoliche, anonime.

            Il periodo ellenico o ionico (800-500 a.C.) inizia con i poemi omerici, primo esempio di letteratura greca. Esso annovera, tra gli altri, per l’epopea, i nomi di Omero ed Esiodo, per la lirica, quelli di Tirteo, Mimnermo, Saffo ed Anacreonte, e, per la prosa, quelli di Esopo, Parmenide ed Empedocle.

            Il periodo attico (500-300 a.C.) registra i nomi di Pindaro per la lirica, di Eschilo, Sofocle ed Euripide per la tragedia, di Aristofane per la commedia, di Diogene, Socrate, Platone ed Aristotele per la filosofia, di Erodoto, Tucidide e Senefonte per la storia, e di Demostene e Licurgo per l’eloquenza.

            Il periodo ellenistico o alessandrino (300-30 a.C.) sarà eternato da Ermenesiatte, Antagora, Apollonio Rodio, Aristarco, Polibio, Carneade, Posidonio ed altri ancora; mentre il periodo romano (30 a.C.-530 d.C.) darà alla storia Strabone, Diodoro Siculo, Plutarco, Giuseppe Flavio, Luciano.

            In questo periodo sarà tentata la rinascita della cultura greca, ma la chiusura della Scuola di Atene per ordine di Giustiniano (529) segnerà la fine dell’ellenismo.

 

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            L’Iliade, come si è detto, narra vicende epiche eoliche delle civiltà egea e più precisamente micenea; tratta, infatti, dell’ultimo anno della decennale guerra degli Achei contro Troia.

            Questa era una città della Troade, in Asia Minore, che sorgeva sulla collina di Hissarlik, alla confluenza dello Scamandro con il Simoenta.

            Gli scavi di H. Schliemann (1822-1890) hanno messo in evidenza nove strati archeologici: la città, quindi, fu per nove volte fondata e distrutta.

            La Troia cantata da Omero è, secondo il Dörpfeld, quella del sesto strato a partire dal basso, che si riferisce ad una città esistita tra il 1500 ed il 1100 a.C., cioè in piena civiltà micenea.

            La guerra di Troia dovrebbe, quindi, risalire al 1200 a.C., dato che in quell’epoca inizia la colonizzazione ellenica dell’Asia Minore e si ha, necessariamente, uno scontro tra due diverse realtà socio-economiche, in scontata concorrenza.

            Nell’Iliade frequente è il riscontro di eventi lesivi conseguenti a traumi, provocati perlopiù da armi bianche o con pietre.

            Le armi bianche usate di norma dagli eroi omerici sono la lancia, la spada e la freccia.

            La lancia era costituita da un’asta di frassino, lunga due metri e del peso di circa due chilogrammi che terminava con una punta di bronzo o di ferro a due tagli; l’altra estremità era pure appuntita per consentire di piantarla a terra quando non veniva usata.

            La spada era di bronzo, a due tagli, con impugnatura lavorata e adorna di metalli preziosi, e si portava al fianco sinistro, in un fodero di cuoio o metallo, appeso ad un cinto che scendeva dalla spalla destra.

            La freccia era un’assiciola di canna, lunga circa sessanta centimetri e del peso di circa un chilogrammo, con punta metallica a tre tagli uncinati. Essa veniva portata in una faretra di cuoio o di vimini ed era lanciata con un arco, che poteva essere di legno flessibile, teso da una corda legata alle sue estremità, o risultare di due corna di antilope, fissate al centro da un manicotto metallico, con le estremità variamente collegate.

            La descrizione delle lesioni, che armi o sassi potevano provocare ai guerrieri sotto le mura di Troia, è, nell’Iliade, a volte abbastanza precisa, talaltra primitiva e rudimentale.

            Esse consistono perlopiù in ferite e fratture.

            A volte la gravità delle ferite non è credibile, come nel caso di Ifinoo, che, colpito all’omero da una freccia di Ettore, cadde morto dal cocchio, o di quel guerriero troiano che, colpito da Euripilo con un fendente all’omero, si vede reciso il braccio con morte subitanea.

            Le lesioni che Omero descrive il più spesso mortali sono quelle alla testa, al collo, al torace ed all’addome.

            Fra le lesioni craniche, ce ne sono alcune davvero impressionanti, come quella provocata da Antiloco, che uccide Echepolo, infiggendogli la punta della lancia nella fronte e trapassandogli l’osso frontale, o quella di Oileo a cui la lancia di Agamennone penetra nella fronte “allagandogli” il cervello, o quella provocata da Peneleo, che colpisce con la lancia Ilioneo all’occhio, trapassandogli il cranio per uscire dalla nuca, portandosi dietro l’occhio (il che è impossibile) o infine, quella causata da Idomeneo, che penetra con la lancia nella bocca di Erimanto, facendola uscire dalla nuca, dopo avergli provocato una frattura craniocervicale.

            Altre lesioni craniche sono invece meno gravi, provocando solo una frattura mascellare o un lieve fatto commotivo, come nel caso di Ettore, che, colpito sull’elmo dalla lancia di Diomede, ha un annebbiamento della vista.

            Anche le lesioni al collo sono spesso mortali.

            Efficace la succinta descrizione della morte di Ettore per dissanguamento da recisione della carotide, provocata da Achille con un colpo di lancia al collo.

            Altre descrizioni sono poco credibili dal punto di vista medico, anche se suggestive sotto il profilo dell’immagine poetica, come nel caso di Anchiloco, la cui testa, recisa da un colpo di lancia all’altezza dell’atlante, rotola a terra quando la parola non si è ancora spenta.

            In un caso, invece, la lesione si limita ad un torpore al braccio, come per Teucro, colpito da Ettore con un macigno alla base del collo.

            Le lesioni al torace trovano spesso un’accurata descrizione. A volte esse provocano solo svenimenti, come nel caso di Ettore colpito al petto da un macigno lanciatogli da Aiace Telamonio, ma il più spesso sono mortali, come nel caso di Sarpedonte, colpito al petto da una freccia scagliatagli da Patroclo, che muore quando il dardo gli viene estratto, o nel caso di Gorgizione, colpito al petto da una freccia lanciatagli da Teucro.

            Lesioni sempre mortali sono quelle addominali.

            Piro, ad esempio, atterrato Dioro con una pietra alla tibia, lo uccide, affondandogli la lancia nell’addome con fuoriuscita dell’intestino, ed uccide Toante, dopo averlo ferito con la lancia al petto, infilzandolo al ventre. Merione, invece, uccide un nemico, colpendolo con la lancia alla natica, facendola uscire dalla regione pubica; uccide un altro nemico, colpendolo con la lancia al ventre, tra l’ombelico ed il pube, e poi retraendola per aggravare l’emorragia interna, ed uccide Arpalione, colpendolo con una freccia all’addome, sopra la vescica. Idomeneo uccide con la lancia Enomao, colpendolo all’addome, ed Antiloco uccide Toane, recidendogli l’aorta discendente.

            Altre lesioni descritte da Omero sono la frattura del bacino provocata con un colpo di lancia da Patroclo ad Arlilico, una ferita all’omero di Macaone provocata da una freccia di Paride, una frattura di tibia con strappamento dei ligamenti, provocata con una pietra da Piro a Diore, e la frattura dell’acetabolo, provocata da Diomede ad Enea, avendolo colpito con macigno alla coscia.

            La cura delle lesioni traumatiche nell’Iliade è semplice, ma spesso efficace. Essa consiste nell’estrazione del corpo estraneo (perlopiù un dardo), nell’eventuale suzione del sangue dalla ferita (lo fa Macaone con Menelao), nel lavaggio della ferita con acqua (Patroclo usa acqua di mare per lavare la ferita alla coscia di Euripilo), nell’applicazione sulla stessa di farmaci salubri (ad esempio, spremuta di radice amara) e di balsami analgesici, forse cicatrizzanti, e nella fasciatura, per evitare l’emorragia e l’infezione.

            Ciò che conta nelle ferite è allontanare il dolore.

            Nell’Iliade non si parla mai di suture, cauterizzazioni o di riduzioni di fratture. La disinfezione delle ferite si presume dai lavacri, a volte caldi per allontanare le concrezioni ematiche (come usava fare Ecamede, la bionda schiava di Nestore) e dall’applicazione di balsami.

            Al ferito venivano date talora bevande tonificanti a base di vino, latte di capra rappreso, farina bianca ed erbe, rincuorandolo, sotto il profilo psicologico, con ragionamenti. Si trattava, quindi, di una vera e propria psicoterapia.

            Negli svenimenti il ferito veniva steso a terra e gli veniva spruzzata acqua sul viso, come nel caso di Ettore colpito da un macigno al petto.

            I cadaveri degli eroi omerici (Patroclo, Ettore, ecc.) venivano lavati accuratamente con acqua calda e poi, spalmate le ferite con balsamo vecchio di nove anni, venivano unti con olio ed avvolti in candidi lini e, quindi, posti sul letto funebre. Si credeva in tal modo di evitare la putrefazione, che si pensava provocata da insetti (mosche) che potevano generare vermi sul cadavere. I cadaveri venivano poi bruciati sul rogo, il che contrasterebbe con l’usanza presso la civiltà egea di seppellire i morti.

            Poiché Omero descrive spesso con precisione le ferite dei suoi eroi, i sintomi, la gravità delle lesioni e la terapia, adoperando un centinaio di termini tecnici, taluno lo immaginò medico militare o chirurgo, anche se talvolta le cognizioni mediche sono davvero rudimentali.

            La medicina omerica, anche se i feriti invocano gli dei per ottenere la guarigione, non è né magica, né sacerdotale, ma è un’arte a sé, naturale e semplice, empirica, laica e rispettata. Basti pensare alle premurose cure che Idomeneo e Nestore ordinano per il medico-guerriero greco, Macaone, ferito all’omero da una freccia di Paride, reputandolo uomo che vale molte vite, sapendo egli estrarre le frecce dalle ferite, cospargendole, poi, di balsamici unguenti.

            Essa è quindi un’arte nobile ed esperti di medicina sono illustri eroi e guerrieri (Macaone, Podalirio, Patroclo, Diomede, ecc.).

            Nell’Odissea, invece, la medicina già risente del mondo magico (uso di filtri e del nepente, farmaco di potere occulto, capace di cacciare ogni dolore; incantesimi, ecc.) e, quindi, il poema sembra essere, sotto questo profilo, cronologicamente più tardo.

            È da chiedersi a tal punto a quale civiltà appartengano le nozioni mediche riferite nell’Iliade. Ciò richiede una disamina della conoscenza medica che si aveva nella civiltà egea, durante la quale si svolge la guerra di Troia, e nella civiltà greco-ionica, durante la quale l’Iliade è stata scritta.

            Nella civiltà egea la conoscenza medica, pur di origine egizio-orientale, è filtrata attraverso l’empirismo critico delle popolazioni pregreche, dotate di intelligenza mercantile, aperta e curiosa, permeata da un forte individualismo e da un profondo senso della libertà, scevra, quindi, da condizionamenti magico-religiosi.

            L’evolversi della medicina è intimamente legato all’evolversi del pensiero, perché comune è la matrice speculativa. Di questa cultura medica, purtroppo, rimangono pochi reperti, perlopiù archeologici, e la tradizione di una medicina eroica, riferita a mitiche figure, alle quali sono state attribuite virtù mediche.

            Tra questi mitici protagonisti della medicina egea, forse il più antico è Melampo, medico e sacerdote, vissuto verso il 1400 a.C., che avrebbe scoperto le virtù medicali dell’elleboro, usato poi per la cura della pazzia; altri sarebbero stati Orfeo, Museo, Ercole, che avrebbe scoperto la virtù sedativa dei bagni caldi e quella medicale del giusquiamo, Chirone, vissuto nel XIII secolo a.C. e che la leggenda vuole centauro ed espertissimo di erbe, Asclepio o Esculapio, vissuto verso il 1250 a.C., medico valentissimo e per questo divinizzato, che avrebbe introdotto la psicoterapia e l’uso di sonde e vari farmaci, Macaone e Podalirio, suoi figli, medici valenti e forti guerrieri sotto le mura di Troia.

            La medicina egea si basa, quindi, sull’empirismo naturale, sull’uso delle piante medicali, su una chirurgia elementare, sulle pratiche igieniche e sulla dietetica.

            La cultura medica che si evince dall’Iliade ricalca di fatto questi schemi, anche se è già una cultura greca e non più egea, e ciò perché Omero, antesignano della cultura greca, filtra nella sua opera, in una diversa proiezione storica, la cultura egea, durante la cui civiltà agiscono e muoiono i suoi eroi.

            Solo con l’affermarsi del periodo ionico della cultura greca, la medicina tende ad impostarsi su un binario magico-sacerdotale, divenendo incline alla magia e dell’occultismo, per cui nella quiete dei templi di Asclepio si afferma la medicina teurgica, mentre della cultura egizio-orientale si assumono le pratiche magico-esoteriche. E di questa nuova cultura medica l’Odissea risente, dato il frequente riferimento in questo poema a filtri ed incantesimi.

            Questa constatazione potrebbe essere un postumo contributo storico-medico alla soluzione della cosiddetta questione omerica, riconoscendo diversa paternità ai due poemi, mentre la dissonanza nell’Iliade fra cognizioni mediche precise ed alcune fantastiche e rudimentali accrediterebbe un rimaneggiamento del poema nei tre secoli che separano la sua prima stesura da quella definitiva.

 

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            Ora, nella piana dello Scamandro, ai piedi di Hissarlik, Ettore non cerchia più di strazio le mura di Troia.

            Ai generosi di sempre rimane il conforto del tempo, che passa imparziale e delle sciagure umane eterna la pietà, perché il dolore non sia accorso invano ai fatti della storia.