IL BOOM DI LONGEVITA’ E LA CURA DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI:QUALE LEGAME?

(i due tsunami che hanno cambiato il mondo)

 

A. Boccanelli

 

 

C’è, nella memoria di molte famiglie italiane, l’immagine di un robusto e infagottato militare americano dell’ultima guerra mondiale, nella sua veste di “liberatore”, che, oltre a cioccolata e sigarette, tirava fuori dallo zaino un misterioso flacone da somministrare ad un bambino in condizioni molto gravi per una polmonite.

Erano i primi anni ’40. Con molta diffidenza, ma con la forza della disperazione, quel flacone di penicillina veniva iniettato nel bambino, che, miracolosamente, già il giorno dopo, era sfebbrato e respirava bene. Senza quell’antibiotico, probabilmente, quel bambino avrebbe contribuito ad abbassare la media dell’attesa di vita, che a quell’epoca non era molto diversa da quella dei decenni e anche secoli precedenti.

L’introduzione degli antibiotici generò il primo grande tsunami epidemiologico, con un aumento, in brevissimo tempo, dell’attesa media di vita di circa 15 anni. Negli anni ’90 quel bambino aveva circa 50 anni, aveva cavalcato l’onda del miracolo economico, aveva acquisito abitudini di vita “comode” e la disponibilità alimentare cresciuta ne avrebbe fatto probabilmente un candidato alla malattia coronarica. Negli anni ’80 l’attesa di vita di un maschio italiano non era molto superiore a 65 anni ed era l’epoca in cui si  cominciava a lanciare l’allarme sulla crescente incidenza delle malattie cardio e cerebrovascolari. Le Unità Coronariche lavoravano a pieno ritmo, si sperimentavano nuovi rimedi contro l’occlusione coronarica – era l’epoca del trionfo della trombolisi, a  cui sarebbe poi seguita l’epopea dell’angioplastica primaria – e ci si attrezzava con la “terapia organizzativa dell’infarto”, fatta di reti integrate di servizi tarate soprattutto sullo STEMI.

Il nostro, ormai cinquantenne, però, riuscì a godere del secondo tsunami: l’inserimento nel bagaglio della terapia cardiovascolare delle statine e di farmaci antiipertensivi sempre più efficaci e meglio tollerati. Quell’onda che si generò in pochissimi anni ha prodotto una seconda impressionante rivoluzione epidemiologica: la riduzione progressiva degli STEMI a favore dei NSTEMI, con un balzo in avanti di oltre 10 anni nell’insorgenza delle malattie coronariche, la riduzione della encefalopatia ipertensiva multinfartuale e degli ictus, la immissione in circolazione di una grande quantità di persone scampate al pericolo della malattia cardio e cerebrovascolare, acuta o cronica.

L’attuale attesa di vita di un maschio italiano è di circa 80 anni e della femmina di circa 83, e cresce di circa 3 mesi ogni anno. Questo balzo in avanti è dovuto soprattutto alla lotta contro l’arteriosclerosi degli ultimi due decenni del secolo scorso, così da poter considerare quella epidemia secolare debellata, come lo erano state nei secoli precedenti peste, sifilide e tubercolosi (ciascuna con il proprio secolo di riferimento).

Quando si parla oggi con i Colleghi che lavorano in UTIC, le frasi che vengono riferite più di frequente sono :

1) “a noi non mandano più i giovani, qualcun altro nella rete li sta drenando”

2) “abbiamo ridotto il numero delle angioplastiche primarie”

3) “ci mandano solo anziani, per lo più molto malandati e sempre più anziani”

4) “ci stiamo riempiendo di pazienti con scompenso cardiaco e fibrillazione atriale”

Probabilmente solo la prima di queste affermazioni è sbagliata, in quanto non esiste una macchinazione ai danni di qualcuno, ma in realtà è molto aumentata l’epoca di insorgenza delle malattie coronariche. Gli emodinamisti riferiscono che si vedono meno quelle placche instabili, generalmente monovaso, che tanta soddisfazione davano agli albori dell’angioplastica, a favore di una aterosclerosi calcifica diffusa in pazienti sempre più in là con gli anni.

Molto probabilmente il trattamento con statine, modificando la biologia di placca, ne ha impedito l’evoluzione verso la rottura, ma non verso l’evoluzione sclerotica. Questa modifica della struttura di placca si è tradotta in una riduzione degli STEMI ed in un aumento degli infarti con meccanismo non trombotico, ma emodinamico, più tipico della fragilità e comorbilità delle fasce più avanzate della popolazione.

Con il ridursi delle cause “vascolari” di cardiopatia, si fanno avanti quelle più propriamente “tissutali” o degenerative. Ecco pertanto l’incremento dello scompenso cardiaco, non a caso a sempre più prevalente fisiopatologia diastolica, non legata cioè a fenomeni di perdita di tessuto contrattile necrotica, ma piuttosto a sostituzione fibrotica progressiva e perdita di miociti. Ed ecco quindi l’incremento della fibrillazione atriale, legata a fenomeni degenerativi del tessuto atriale. Queste sono situazioni che interessano una fetta molto importante (fino al 15 %) della popolazione degli ultraottantenni. Pertanto è sempre più NSTEMI, sempre più scompenso cardiaco, sempre più fibrillazione atriale in una popolazione sempre più anziana in cui i problemi cardiologici vanno ad innestarsi in soggetti con problemi di altri organi e apparati, configurandosi situazioni di complessità crescente.

E i cardiologi? I cardiologi nascono e crescono con la innovazione tecnologica, che ne ha fatto negli ultimi 50 anni i protagonisti indiscussi del successo nell’aumento dell’attesa di vita. E adesso che abbiamo prodotto, e tutta insieme, un popolazione così diversa da quella che eravamo stati educati a trattare, abbiamo gli strumenti per continuare a farlo?

Se si riflette, utilizziamo strumenti non testati. Noi, paladini della medicina basata sull’evidenza, applichiamo le nostre conoscenze maturate su popolazioni diverse in modo empirico a pazienti solo parzialmente conosciuti. Questo è vero per la farmacoterapia, la terapia interventistica, l’elettrostimolazione e la cardiochirurgia.

Quando prescriviamo all’anziano un farmaco che consideriamo conosciuto e testato , sappiamo fino in fondo quali possono essere le conseguenze in termini di interazioni in un contesto di polifarmacia e di sistemi di eliminazione più precari?

Quando consideriamo un paziente “non responder” abbiamo valutato fino in fondo quanto alterazioni cognitive possano interferire con l’aderenza alla terapia?

Quando eseguiamo un’angioplastica e costringiamo il paziente alla doppia antiaggregazione, abbiamo sempre fatto bene i conti con il rischio emorragico?

Quando discutiamo sulla applicabilità della cardiochirurgia, siamo ancora sicuri dei nostri score di valutazione del rischio?

Quando poniamo indicazione ad impianto di defibrillatore o di TAVI oltre gli 80 anni ci siamo posti bene il quesito del perché lo facciamo e con quali possibili risultati?

La gestione dei pazienti nei reparti cardiologici, fatti per ricoveri brevi e “high-tech”, è sempre adattata e adattabile a pazienti con problemi di non autosufficienza? Siamo sensibili a questo? Sappiamo bene che sopravvivono le specie capaci di adattarsi all’ambiente che cambia. L’ambiente in cui lavorano i cardiologi è cambiato tanto profondamente da mettere in discussione il loro ruolo, ancora troppo tarato sulla specialità.

Da qui la necessità di creare una nuova cultura e una nuova sensibilità, non una nuova specialità. Di qui la necessità del confronto e della sintesi multidisciplinare, che sappia conservare quanto di enormemente buono si è costruito in 50 anni, riadattando in modo umile e volenteroso il nostro approccio culturale e operativo.

Occorre conoscere questa nuova popolazione: l’epidemiologia, i registri, la verifica degli esiti delle cure, la interiorizzazione del concetto di complessità sono gli strumenti.

La ricerca, la nuova organizzazione dell’assistenza, la formazione, sono gli obbiettivi che dobbiamo perseguire con entusiasmo rinnovato.

 Prof. Alessandro Boccanelli, Cardiologo Clinica Quisisana Roma.