RUOLO DELLA CHIRURGIA NEL TRATTAMENTO INTEGRATO DEI TUMORI SOLIDI

 

A. Bolognese, G. Merlini , A. Paliotta, F. Pugliese

 

    La chirurgia rappresenta  la base del trattamento della maggior parte dei tumori solidi, ma non è più la sola arma terapeutica a disposizione; attualmente,si deve inserire in una strategia pluridisciplinare, notevolmente più complessa, con un duplice obiettivo:

-         assicurare la guarigione e aumentare la durata della sopravvivenza attraverso il controllo, non solo locoregionale, ma anche generale della malattia;

-         assicurare una buona qualità di vita mediante un trattamento, il più possibile conservativo  con il  mantenimento della funzione d’organo e  di una buona  immagine dell’organismo.

In uno scenario così complesso la chirurgia mantiene inalterato il suo ruolo prioritario che si svolge in termini di prevenzione, diagnosi e controllo della malattia.  La chirurgia oncologica non  è mai  stata  inserita tra le diverse specialità con una sua autonomia, e questo è logico, se si considera che interessa organi molteplici e differenti, in situazioni di urgenza e non e con intenti talora curativi, talora palliativi. Tuttavia viene insegnata in molte specialità, ma i suoi principi fondamentali sono poco divulgati e, quando lo sono, si basano su conoscenze che sono velocemente superate dal progresso scientifico.

La chirurgia oncologica può essere attualmente interpretata come una specialità del tutto caratteristica che richiede competenze particolari che completano quelle abitualmente richieste ad altre specialità.

Appare pertanto indispensabile analizzare e puntualizzare alcuni meccanismi fondamentali di interazione della chirurgia con la crescita tumorale alla luce delle più attuali conoscenze della fisiopatologia oncologica.

E’ noto che la diffusione delle cellule neoplastiche è un evento precoce e costante nel momento in cui il tumore primitivo infiltra la sottomucosa con superamento della membrana basale ed invasione dello stroma interstiziale:il potere immunitario dell’ospite, peraltro, può modificare la progressione tumorale in modo da inibirla o favorirla dando origine a diffusione ematica, linfatica o per contiguità con impianti locali.

   La diffusione ematogena è stata messa in evidenza sin dal 1965 ed è un fenomeno costante che comincia dalle vene peritumorali. La manipolazione tumorale e le perturbazioni biologiche per- operatorie possono far aumentare la diffusione delle cellule tumorali in modo significativo. Salsbury ha dimostrato che dopo legatura dell’arteria mesenterica inferiore in pazienti operati per cancro colorettale, la determinazione delle cellule neoplastiche nel sangue periferico, risultava positiva  nel 60% dei casi rispetto al 10% prima della legatura. Peraltro la legatura d’ambleé  di tutti i peduncoli vascolari è una evenienza  non sempre effettuata e trials prospettici  controllati non hanno mostrato variazioni di sopravvivenza significative in pazienti con legatura preventiva confrontati con un gruppo di controllo: queste constatazioni pertanto relativizzano il dogma classico  della legatura preventiva dei peduncoli vascolari in chirurgia oncologica.

La rilevazione delle cellule tumorali circolanti nel sangue è stata  oggetto di numerosi studi nel corso degli ultimi anni  dai quali è apparso evidente che esse rappresentano l’origine del processo metastatico. E’ stato dimostrato, però, che non sempre  la presenza di cellule tumorali in circolo da esito a metastasi considerando l’inefficacia metastatica di alcune cellule, dal momento che solo alcuni cloni hanno potere metastatizzante ed alcuni di essi vengono eliminati dalle difese immunitarie dell’ospite. Recentemente è stato dimostrato che le cellule tumorali circolanti non sono tutte uguali sul piano genetico: questa eterogeneità genetica è particolarmente evidente quando esse sono provenienti dal tumore primitivo (genoma instabile) più che quando provengono dalle metastasi (genoma stabile): questo rappresenta un problema maggiore per la chemioterapia o per la terapia genica

   La diffusione linfatica dei tumori è uno dei problemi maggiori della chirurgia oncologica, essendo significativamente correlata all’accuratezza delle metodiche di rilevazione: è un evento precoce e pressoché costante. Segue le vie di minore resistenza attraverso i follicoli ed i capillari a pareti sottili. Le ghiandole linfatiche costituiscono dei filtri  scarsamente efficaci per le cellule tumorali: la maggior parte di esse la oltrepassano senza fermarsi  e si versano nel torrente circolatorio. Il carattere linfofilo  dei tumori è variabile a seconda del tipo istologico: è debole per neoplasie come i sarcomi e i carcinomi  a cellule chiare del rene, mentre è marcata per gli adenocarcinomi dell’apparato digerente e della mammella. La valutazione della diffusione linfatica dipende peraltro dal numero dei linfonodi che il chirurgo offre all’anatomo-patologo e dal tipo di metodica di rilevazione utilizzata: per tale motivo già la classificazione del 1997 dell’UICC prende in considerazione il numero minimo dei linfonodi che devono essere esaminati in rapporto alla sede del tumore primitivo , per definire con accuratezza l’invasione linfonodale.

Per quanto riguarda lo studio dei linfonodi è ormai dimostrato che più e meglio essi vengono analizzati tanto più  si riscontra una loro infiltrazione e questo dato  ha importanza prognostica per la maggiorparte dei tumori. Il valore prognostico della rilevazione di  metastasi linfonodali si evidenzia  nel fatto che la mortalità a 5 anni  dal 3% nei casi N- sale al 43% nei casi N+.

Un altro rilievo che ha suscitato molto interesse è la presenza di cellule tumorali nel midollo osseo. L’infiltrazione midollare è riscontrata globalmente nel 35-60% dei casi, ha un valore prognostico, ma la sua dimostrazione dipende dai mezzi che si utilizzano. Queste cellule si comportano come cellule “dormienti” dal momento che il 90% sono in fase G0 e che il 10% soltanto esprime il marcatore di proliferazione Ki 67.

  L’impianto locale di cellule neoplastiche avviene, di solito, più frequentemente in seguito a perforazione spontanea del tumore, dopo una sua effrazione per biopsia o exeresi o quando un tumore affiora la sierosa.  Queste considerazioni spiegano, in parte, l’insorgenza delle recidive locali dopo chirurgia e l’importanza di eseguire una chirurgia esangue limitando anche la linforragia. Le cellule neoplastiche infatti vengono intrappolate nei depositi di fibrina che ricoprono velocemente le regioni cruentate ed hanno un’affinità specifica per le normali aderenze fibrinose postoperatorie, che sono già presenti dopo 30 minuti dall’intervento: ad esse aderiscono le cellule per la ricca presenza del complesso tripeptidico arginina-glicina-aspartato (RDG) tramite integrine che sono numerose sulla loro membrana. Le cellule tumorali, così intrappolate nella fibrina, si trovano in una sorta di “santuario” dove non sono aggredibili da alcun farmaco per via sistemica per l’assenza di neovascolarizzazione e nel quale trovano un terreno di crescita propizio.  La comprensione di tali meccanismi ha contribuito allo sviluppo di strategie tendenti ad evitare l’impianto delle cellule tumorali ed a mettere a punto la terapia delle carcinosi peritoneali secondo i concetti di Sugarbaker.

La chirurgia viene spesso definita” radicale” intendendo, con tale termine, l’asportazione totale della malattia evidenziabile macroscopicamente; invece, sarebbe più giusto, definirla chirurgia di “riduzione tumorale” dal momento che essa non asporta un quoziente di cellule tumorali quali le cellule circolanti, le cellule dormienti nel midollo e le micro-metastasi già esistenti.

Tuttavia,  pur tenendo conto del suo carattere incompleto e dei suoi effetti negativi, la chirurgia resta un trattamento notevolmente efficace e, la sua integrazione con altre terapie, può offrire migliori risultati per quanto concerne riduzione di recidive locali e miglioramento delle curve di sopravvivenza specie nelle neoplasie avanzate.

Appare sempre più evidente,peraltro, che trattamenti poli-chemioterapici sono tanto più efficaci quanto più il volume tumorale è ridotto. E’ certamente nel trattamento adiuvante dopo la chirurgia e quando la malattia residua non è più dimostrabile con la radiologia per immagine e con i rilievi di laboratorio, che la chemioterapia aumenta nettamente la frequenza di guarigione. E’ lecito enunciare, quindi, un nuovo concetto terapeutico semplice ma fondamentale: la chirurgia che asporta la malattia macroscopica, associata a chemioterapia adiuvante per trattare la malattia residua, offre il massimo di possibilità di guarigione per il paziente.

Questo principio è la base del trattamento di alcune carcinosi peritoneali mediante l’exeresi chirurgica di tutti gli impianti tumorali sopramillimetrici, associata ad una chemio-ipertermia intraoperatoria immediata, destinata ad eradicare gli impianti tumorali residui infracentimetrici, trattamento che in effetti sta mantenendo la prova della sua efficacia.

In questa associazione terapeutica il ruolo della chemioterapia è importante quanto quello della chirurgia, ma in questo contesto è fondamentale che l’efficacia della chemioterapia sia preliminarmente testata; è probabile che, in un recente futuro, una diagnostica per immagine funzionale (PET-Scan, studio della vascolarizzazione tumorale con ecografia 3D con mezzi di contrasto prima della chemioterapia) potrà fornire questa informazione importante. Per quanto riguarda, inoltre, il timing delle integrazioni terapeutiche al fine del miglioramento della sopravvivenza, le basi razionali su cui si basa il concetto di associare  una chemioterapia o immunoterapia preoperatoria, sono sufficientemente chiare: è stato dimostrato infatti che il momento della chirurgia è per l’organismo un momento di stress e di debolezza immunitaria, con maggiore possibilità di disseminazione tumorale. La chemioterapia ad alte dosi dovrebbe essere somministrata con maggior tranquillità sia prima che al momento dell’intervento chirurgico; ne resta da dimostrare, forse, l’impatto sulla sopravvivenza con uno studio randomizzato.

Efficacia Della Chirurgia Oncologica. E’ lecito, senza dubbio, affermare che la chirurgia da sola, costituisce in termini di guarigione il più efficace trattamento contro il cancro nella terapia dei tumori solidi, specie in quei casi in cui  non sempre è realizzabile una chemioterapia veramente efficace, come nel caso di melanomi, sarcomi, o adenocarcinomi del pancreas e dei reni.

L’exeresi chirurgica, invece non è che uno dei trattamenti nel caso di quei tumori, sempre più numerosi, che manifestano una chemiosensibilità: è il caso dei tumori colorettali, dell’esofago e dell’ovaio. In tal caso, l’integrazione terapeutica offre sicuramente risultati migliori per quanto concerne la riduzione di recidive locali ed il miglioramento delle curve di sopravvivenza, specie nelle neoplasie avanzate, ed il trattamento sistemico gioca un ruolo fondamentale, sovrapponibile al trattamento chirurgico. In questo contesto, in particolare, la presenza di metastasi in sedi differenti perde di valore prognostico, a patto che la chirurgia sia in grado di asportarle completamente con intento curativo: è allora il numero totale delle metastasi, valutabili e resecabili, che diventa preponderante al fine della prognosi. Il ruolo della chirurgia si modifica inoltre in modo costante sia in funzione dei progressi dei trattamenti sistemici, che in funzione dei propri limiti specifici: non è raro infatti, in caso di terapia neoadiuvante molto efficace e prolungata nel tempo, vedere scomparire alla diagnostica per immagini metastasi epatiche o polmonari di piccola taglia. La chirurgia gioca invece un ruolo secondario nei tumori ad alta chemiosensibilità, quali i tumori del testicolo e i tumori pediatrici: nei tumori non-seminomi del testicolo, infatti, l’asportazione di metastasi linfonodali, epatiche o polmonari, dopo normalizzazione o quasi dei valori dei marcatori tumorali, consente di ritrovare nel 60% necrosi, nel 35% teratomi, e solo nel 15% dei casi attività neoplastica.

In termini di rapporto costo-beneficio la chirurgia, quindi, resta attualmente il fulcro fondamentale della terapia dei tumori solidi, e continua a progredire orientando il proprio sviluppo in diverse direzioni: tendenza minimalista e massimalista, integrazione terapeutica multidisciplinare, modificazione del timing terapeutico, utilizzazione dei modificatori delle risposte biologiche, standardizzazione dei trattamenti. In particolare la chirurgia oncologica, per quanto riguarda l’orientamento, in molte situazioni, è più conservativa, grazie alle conoscenze più precise sulla prognosi, alla scelta più appropriata del tipo di intervento modulato in rapporto allo stadio del tumore e all’efficacia di terapie integrate multidisciplinari.

In alcuni casi, al contrario, la scarsa efficacia delle terapie neo- e/o adiuvanti, specie nei tumori avanzati, e la conoscenza più accurata della storia naturale e dello stadio, impongono interventi notevolmente più demolitivi, supportati, peraltro, dal progresso delle tecniche anestesiologiche e di rianimazione; si possono eseguire quindi linfoadenectomie estese, exeresi sincrone di metastasi epatiche e polmonari, nonché trattamenti multidisciplinari contemporanei per carcinosi peritoneali.

 

Il Futuro Della Chirurgia Oncologica. La chirurgia dei tumori cambierà in futuro come è cambiata in passato. Il progresso sarà certamente legato allo sviluppo delle tecniche della biologia, dell’anatomia patologica, della diagnostica per immagini, e allo sviluppo della genomica e della proteinomica. E’ da sottolineare il particolare rilievo che hanno assunto recentemente le ricerche sulle “micrometastasi”, suscitando interesse, entusiasmo, ma anche perplessità.

Interesse ed entusiasmo, per la messa a punto di metodiche di rilevazione sempre più affidabili; perplessità, per quanto attiene il ruolo che il rilievo di micrometastasi linfonodali, nel midollo osseo e nel sangue circolante può comportare sulla prognosi e, conseguentemente, sulla scelta e sul timing dei trattamenti integrati, al fine del miglioramento della sopravvivenza.

Per quanto riguarda l’utilizzazione di alcune sostanze capaci di modificare la risposta biologica, attualmente è possibile inibire un processo biologico naturale nocivo, o al contrario stimolare un evento fisiologico favorevole. Alcuni studi clinici in corso,  sebbene in fase preliminare, hanno dimostrato,infatti, il ruolo importante della neoangiogenesi sulla crescita tumorale. Questi studi, utilizzando alcuni inibitori della neoangiogenesi (cetuximab, bevacizumab, etc), hanno evidenziato l’assenza di resistenza farmacologica malgrado il trattamento a lungo termine, un alto grado di specificità ed una riduzione degli effetti collaterali, con risultati a distanza sempre più incoraggianti.

Lo sviluppo della diagnostica per immagini è stato rivoluzionato da tecniche quali PET ed ecografia con mezzi di contrasto, come anche dalle TAC  di ultima generazione che, mettendo in evidenza la vascolarizzazione tumorale in maniera precisa, possono consentire di valutare l’efficacia della risposta al trattamento con sostanze anti-neoangiogenetiche.

La messa a punto di marcatori tumorali ultraspecifici , grazie alle biotecnologie, consentirà un’individuazione più precisa delle localizzazioni tumorali, e quindi un’individuazione precoce delle neoplasie, con una stadiazione più accurata in grado di guidare il trattamento in maniera più efficace.

La genomica, che consente di costruire la “carta di identità” delle neoplasie, modificherà la classificazione dei tumori, attualmente basata sull’anatomia patologica, e quindi potrà variare le indicazioni terapeutiche, prevedendo inoltre la risposta individuale dei pazienti, la tossicità dei farmaci, definendo un trattamento personalizzato della neoplasia.

Ma sarà soprattutto la proteinomica a condizionare lo sviluppo futuro: la proteinomica è un’analisi su vasta scala delle proteine espresse dal genoma; il suo studio è ancor più complicato di quello del genoma, perché ancor più inserito nell’infinitamente piccolo e nei grandi numeri. Pertanto, in teoria, è più affidabile perché una mutazione genetica può non esprimersi o, al contrario, esprimersi in una proteina chiave della replicazione cellulare;  il suo studio rappresenta il riflesso in vivo delle modificazioni molecolari.  Lo scopo è quello di ottenere un profilo proteinomico che richiede,però, l’utilizzo di sistemi computer complessi che consentono di differenziare con un’affidabilità del 100% i diversi tipi di tumore. Nel caso di tumori del tratto gastro-enterico, inoltre, è possibile che la tecnica di estrazione di queste proteine potrà differenziare una displasia da un adenoma e da un adenocarcinoma iniziale, e verificare se il trattamento sia stato completo o no. Queste tecniche peraltro, così sofisticate, peccano ancora per mancanza di omogeneità e  di  validazione da parte di grandi numeri di pazienti.

Le forme famigliari di tumore (predisposizione genetica) saranno meglio conosciute, e dunque diagnosticate in fase preclinica, teoricamente  individuando il momento in cui una lesione si trasforma in precancerosa . Per le forme famigliari, quindi ,si potrà sviluppare una chirurgia “profilattica”; il suo timing sarà guidato dalla biologia e, probabilmente, le exeresi profilattiche rappresenteranno la base della nuova chirurgia.

   In definitiva la chirurgia oncologica  potrà  essere definita a  pieno titolo ”Biochirurgia” in quanto sempre più frequentemente si utilizzeranno in fase pre-, intra- e postoperatoria sostanze biologiche quali fattori di crescita, citochine, molecole antiadesione ed inibitori della neoangiogenesi e biotecnologie che consentiranno il riconoscimento  ed il bersaglio di formazioni tumorali in evoluzione non valutabili dalla vista o dalla palpazione bensì attraverso  una PET operatoria con FDG marcato.  


 

La chirurgia oncologica del domani dovrà necessariamente essere una chirurgia di qualità  eseguita da un chirurgo in possesso di alcuni indispensabili requisiti.:abilità tecnica, formazione specifica basata su conoscenze fisiopatologiche in costante evoluzione, capacità di standardizzazione di metodiche chirurgiche e di protocolli terapeutici.

Pertanto il chirurgo oncologo dovrà essere un chirurgo “competente” che rispetta le regole oncologiche di exeresi tumorale, in funzione dell’organo coinvolto e del tipo istologico del cancro, con una spiccata attitudine alla decisione collegiale che sappia convivere con patologi,oncologi e radioterapisti. Tutto in una società ben organizzata  in cui non si dovranno più registrare tumori in fase avanzata, ma solo forme sovracentimetriche non chemiosensibili.

 

 

Bibliografia essenziale

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PER LA CORRISPONDENZA:

Prof. Antonio Bolognese

Sapienza Università di Roma - Facoltà di Medicina e Odontoiatria

Policlinico Umberto I

Dipartimento di Chirurgia “Pietro Valdoni”

UOC Chirurgia oncologica

 

antonio.bolognese@uniroma1.it