PREVENZIONE DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI

 

Vito  Cagli[*]

 

 

C’è molto spesso nelle malattie  cardiovascolari un’immediatezza che spaventa.    Si pensi all’infarto acuto del miocardio o all’ictus cerebrale: un soggetto fino a pochi minuti prima apparentemente sano e in piena attività può essere colpito da un insulto che minaccia la sua vita o che, addirittura, la conclude.  Di fronte a  questi quadri, medici e pazienti del passato si sono domandati: «Possibile che non esista un  mezzo per prevedere e per scongiurare questi eventi?».  Nel corso del tempo questi mezzi sono stati in certa misura trovati e questi rimedi inventati, ma ciò che fondamentalmente si è scoperto è che bisogna sempre risalire molto indietro nella vita di un individuo, sino al suo soggiorno nell’utero materno e prima ancora sino al corredo genico trasmessogli dai genitori, se si vuole anche soltanto tentare di prevedere, almeno in una certa misura, e in misura minore di prevenire, la comparsa di eventi potenzialmente letali.  E allora si sono sviluppate indagini idonee allo scopo, capaci di informarci sulle probabilità che un evento cardiovascolare si presenti nel giro di qualche anno: un insieme coordinato di dati che possono misurare il rischio della sua futura insorgenza. 

Quello che abbiamo chiamato un “insieme coordinato” di dati diversi tra loro comprende l’anamnesi personale e famigliare, abitudini voluttuarie come il fumo, misurazioni fisiche come quella del peso corporeo o della pressione arteriosa e misurazioni di laboratorio divenute via via sempre più numerose.  Il numero crescente di determinazioni di laboratorio o strumentali proposte in ambito cardiovascolare come fattori di rischio (FR) obbliga ad una cernita che scelga le indagini più adatte alla singola situazione, alla fase del processo morboso che si vuole indagare e alla  reale capacità predittiva del singolo test, al fine di evitare due pericoli:  il primo, quello della ridondanza di informazioni che potrebbe diventare un elemento confondente capace di portare fuori strada piuttosto che di indirizzarci verso azioni preventive realmente utili; il secondo quello di aumentare enormemente una spesa sanitaria che richiede piuttosto, in tutti i paesi,  un contenimento. Dunque, è necessario concentrarsi sui FR più validi,  tanto più che l’introduzione del concetto di “marcatore biologico” ha contribuito a dilatare i confini dei FR.

Il termine  biomarker (BM) è stato introdotto nel 1989 e nel 2001 ha ricevuto da parte del National Institut of Health una precisa definizione  che suona nel modo seguente: «Una caratteristica che è obbiettivamente misurata e valutata come un indicatore di processi biologici normali, di processi patogeni o di risposte farmacologiche a interventi terapeutici[1]». Tra i diversi BM  possiamo distinguere:

BM antecedenti: tra cui rientrano molti FR,

BM di screening: evidenziano la malattia in fase precoce,

BM diagnostici: costituiscono un criterio di diagnosi,

BM di stadiazione:  indicano la gravità della malattia

BM prognostici: rappresentano un criterio di prognosi.

Una classificazione di questo tipo è molto utile perché, alcuni BM, come la troponina, entrano in più di uno dei tipi sopramenzionati e il loro impiego ha reso sfumato il confine tra la presenza di un FR e la malattia conclamata.  Infatti la troponina (I e T) è uno dei BM utili per la diagnosi di infarto del miocardio, mentre al di fuori di tale condizioni essa è misurabile nel sangue soltanto eccezionalmente.  Se però si adopera un metodo ad alta sensibilità, capace di rilevare concentrazioni di troponina  10 volte minori di quelle individuabili con il metodo usuale, si osserva che tra i soggetti ritenuti esenti da malattie cardiovascolari  sono presenti in alcuni quantità misurabili di troponina.  In questi stessi soggetti seguiti per 10 anni quelli con più alti valori di troponina T determinata col metodo ad alta sensibilità (valori, tuttavia, al di sotto della soglia delle concentrazioni di troponina T rilevabili coi metodi correnti) hanno un rischio maggiore di malattia coronarica e, ancora maggiore di scompenso cardiaco o di morte, rispetto a quelli con troponina ad alta sensibilità in concentrazioni minori o assente[2].

Come si è già accennato vi sono anche BM diversi nei diversi stadi di un processo morboso.  È quanto accade, ad esempio,  nel lungo tragitto della cascata ischemica che conduce dalla placca arteriosa alla necrosi miocardica.  Per fornire un esempio elementare, un BM per indagare la probabilità di esistenza di una placca arteriosclerotica è la concentrazione plasmatici di LDL, mentre  l’esistenza di una necrosi miocardica è rivelata dall’aumento del CK-MB.

Vi è dunque la necessità di scegliere con attenzione quale BM ricercare in una determinata  fase evolutiva del processo morboso sospettato e quali mezzi di laboratorio siano i più idonei. Una scelta che l’elevato numero di BM possibili candidati rende imperativa.  Uno studio recente ha valutato il valore di 30 BM con un ampio studio longitudinale della durata di dieci anni.  Soltanto 3 BM  (Propeptide natriuretico N- terminale, Proteina C-reattiva, Troponina-T) hanno dimostrato di poter migliorare la stima del rischio cardiovascolare, rispetto alla valutazione con i soli fattori di rischio convenzionali[3]. Di qui, come si vede la necessità di non “sposare” l’ultimo BM offerto dalla letteratura come indicatore di rischio ma di utilizzare sempre per i primi quelli più consolidati, ricorrendo agli altri soltanto dopo una attento vaglio del singolo soggetto in esame ed anche delle reali possibilità del laboratorio di cui si dispone.

L’American College of Cardiology insieme all’American Heart Association  hanno recentemente pubblicato le linee guida per stabilire il rischio cardiovascolare in pazienti asintomatici[4].  Sarà sufficiente riportare le conclusioni più significative di questo lavoro, adattandole ad una visione meno costellata di punteggi e di classificazioni di quella cui gli autori si attengono e che è quella dominante in letteratura, anche se assai meno seguita nella pratica.  Anzitutto viene raccomandato come primo passo il ricorso alla determinazione di FR rischio classici quali quelli dello studio di Framingham (età, sesso, colesterolo totale, colesterolo HDL, fumo, pressione sistolica/farmaci anti-ipertensivi), non dimenticando l’importanza di un’accurata anamnesi famigliare.  Gli autori si richiamano in prima istanza anche al punteggio di Reynolds che aggiunge ai parametri di Framingham la proteina C-reattiva determinata con metodi ad alta sensibilità (PCRhs), l’emoglobina glicosilata in caso di donne diabetiche e assegna un punteggio anche ad eventuali eventi cardiovascolari precedenti  Nei soggetti a rischio molto basso, come in quelli a rischio molto alto l’aggiunta di altri BM può considerarsi inutile.  Soltanto nei soggetti a rischio intermedio vi può esser convenienza a inserire (se già non lo si è fatto) la determinazione della PCRhs, la ricerca della microalbuminuria negli ipertesi e nei diabetici, la misurazione dello spessore intimale delle carotidi (sempre che si disponga di operatori e strumenti affidabili), la determinazione del rapporto tra pressione sistolica alla caviglia e al braccio (nel normale 0.90 o più).

Come si vede, siamo ben lontani dall’inclusione indiscriminata nei chek-up di esami che vanno invece riservati a soggetti in cui esista un quadro clinico che ne giustifichi l’esecuzione.

D’altra parte l’ambizione (o l’illusione) di poter prevedere il futuro moltiplicando il numero e la finezza degli esami, già in sé non scevra da pericoli, è anche, allo stato delle nostre conoscenze,  realizzabile soltanto entro limiti piuttosto ristrette.  E anche per i test genetici le linee guida che abbiamo sopra citato asseriscono che «La determinazione del genotipo per stabilire il rischio di malattia coronaria in adulti asintomatici non è raccomandata»

Prima di concludere questo breve excursus su di un argomento che avrebbe bisogno di uno spazio ben maggiore per una trattazione esauriente, ci sembra opportuno un accenno ad una  prospettiva di prevenzione secondaria, quale emerge da una recentissima metanalisi di 25 trial randomizzati[5]. Si deve considerare che un aumento del rischio di malattie cardiovascolari si registra già a partire da valori di pressione sistolica di 115 mmHg e che circa la metà degli ictus e degli infarti del miocardio si osservano in soggetti con pre-ipertensione (pressione 130-139/86-89), il 90% dei quali ha almeno un FR cardiovascolare e oltre 1/3 dei quali  diviene francamente iperteso nel giro di 4 anni se non vengono assunti idonei provvedimenti terapeutici. Su queste premesse sono stati effettuati numerosi studi  per indagare se anche in soggetti con pressione arteriosa inferiore a 140/90 e con precedenti di ictus o di malattia coronarica la somministrazione di farmaci anti-ipertensivi fosse capace di produrre una riduzione  del numero degli eventi cardiovascolari. I risultati di questa metanalisi hanno mostrato una  riduzione del rischio  per l’ictus, per lo scompenso cardiaco, per l’associazione di più eventi cardiovascolari  e per le morti cardiovascolari.  Resta da confermare la validità di questi risultati in base ad ulteriori studi e da stabilire se il vantaggio sia legato ad una riduzione della pressione arteriosa (un aspetto non preso in esame nella citata metanalisi) oppure agli effetti dei farmaci di per sé. 

Quello che ci pare utile sottolineare  è l’importanza di tutte le misure non farmacologiche  (niente fumo, alimentazione corretta, attività fisica) che però devono essere non un episodio (magari periodicamente ricorrente) ma una costante, una sorta di abito mentale che dovrebbe essere adottato già dall’infanzia e poi continuato lungo tutta la vita.

 

bibliografia


 

[1] Vasan RS  Biomarkers of cardiovascular disease: molecular basis and practical considerations.  Circulation 2006;113: 2335-62.

[2] Saunders JT, Nambi V, de Lemos JA  Cardiac troponin T measured by a higly sensitive assay predicts coronary heart disease, heart failure, and mortality in the Atherosclerosis Risk in Communities Study.  Circulation 2011;123:1367-76.

[3] Blankenberg S, Zeller T, Saarella O et al Contribution of  30 biomarkers to 10 year cardiovascular risk estimation in 2 population cohorts.  Circulation 2010;121:2388-97-

[4] Greenland P, Alpert JS, Beller GA  2010 ACC/AHA guidelines for assessment of cardiovascular risk in asymptomatic  adults: executive summary.  J Am Coll  Cardiol 2010;56:2182-

[5] Thompson AM, Hu T, Eshelbrenner CL  Antihypertensive treatment and secondary prevention of cardiovascular disease events among persons without hypertension.  JAMA 2011;305:913-22.

 

[*] Libero Docente Università di Roma “La Sapienza”.

Per la corrispondenza: v.cagli@alice.it