Commemorazione del prof. PIER LUIGI PRATI

 

  VITO CAGLI

 

 

Che cosa significa commemorare un amico?  Ricordarlo, certo.  Ma come?  Credo anzitutto parlando di lui come di una presenza. La memoria e i sentimenti che a questa persona ci legavano possono restituirci qualcosa di chi ci ha lasciato, dando ai ricordi la forza di farsi presenza.

Dunque, parlare, ricordare, rivivere.  Ma rivivere cosa?    Per ricordare davvero una persona credo che più dell’esposizione di aridi cenni biografici  serva il racconto di quei tratti di strada percorsi insieme, diversi, molto diversi, per ognuno, tanto che per ciascuno una persona può essere di volta in volta questo o quello.  Per chi poi non abbia diviso i minuti della quotidianità ma soltanto le ore di alcuni eventi vi è il rischio di restituire una figura parziale, che a taluni potrebbe sembrare sbiadita, ad altri falsa, e a qualcuno irriconoscibile.  Ma è pur vero che ogni essere umano è cangiante nel rapporto con gli altri, perché gli altri sono diversi come persone e perché fanno parte di una scena diversa.

Avevo con Gigi – lasciate che lo chiami così, com’era privilegio dei suoi intimi –alcune occasioni di contatto  ben precise, quasi degli appuntamenti fissi che sono stati il tramite di un legame che gli anni hanno sempre più rinforzato.  Ma c’era un retroterra che, come ho sempre pensato, ha facilitato il nostro legame.  Come me, Gigi  veniva dalla provincia.  Era nato a Modena  nel 1927 e, oltre alla sua provincia emiliana, aveva conosciuto la mia stessa provincia marchigiana, ad Ancona, dove, a partire dal 1967 era stato primario per undici anni dell’Ospedale Lancisi, unico ospedale cardiologico allora esistente in Italia.  E mi piace pensare che anche la  permanenza,  nel 1960-61, nell’Istituto Nazionale di Cardiologia di Città del Messico, come vincitore di una borsa di studio della NATO, così importante nella sua formazione scientifica e professionale, non abbia cancellato quell’impronta che gli veniva dalla sua città natale come sarebbe accaduto, forse,  se fosse andato a New York o a Boston.  Aveva il gusto delle cose piccole e nello stesso tempo pensava in grande, come è proprio dei provinciali migliori.  Era un sognatore che amava trasformare in realtà i propri sogni, come è proprio dei provinciali migliori. 

Quando dette vita alle sue iniziative più importanti il «Centro per la Lotta contro l’Infarto», i Simposi fiorentini di «Conoscere e Curare il Cuore», la mostra Cuorevivo e la Rivista «Cuore e Salute», siamo nella prima metà degli anni 80, era da non molto arrivato a Roma, dove era giunto nel 1978 per ricoprire il posto di primario cardiologo all’ospedale San Camillo.  Roma non era – come non è tuttora – una città  facile, bisognava farsi conoscere, ed emergere in un gruppo di professionisti molto validi e già ben introdotti.  Gigi seppe affermarsi in maniera indiscussa; scelse per farlo una strada molto personale: quella di iniziative che parlassero per lui e non soltanto di lui.  Ricordava in una recente occasione Alessandro Boccanelli,  accanto a lui per tanti anni, prima ad Ancona e poi al San Camillo, quel “lei” reciproco, mai dismesso neppure dopo una stretta e lunga collaborazione.  Non era, da parte di Prati, un “lei” baronale di distacco, ma era il mantener fede ad un costume che anch’io ho conosciuto, e insieme un modo per non essere troppo coinvolto: un lei di difesa, come di uno che avesse sempre molto pudore dei propri sentimenti.  Ricordo che negli ultimi mesi, quando di tanto in tanto lo chiamavo al telefono per informarmi della sua salute e conversare un po’ con lui, soltanto una volta la sua e la mia voce si incrinarono per la commozione, parlando dell’amicizia e dell’affetto che ci legavano, consapevoli entrambi che l’epilogo era ormai vicino.

Tra le nostre occasioni di incontro e di colloquio  c’erano gli articoli di «Cuore e Salute» e, nel triennio 1997-99 in cui ne fu Direttore, quelli del «Giornale Italiano di Cardiologia», dove mi aveva voluto nel Comitato Scientifico e come referee; per alcuni anni ci furono anche incontri mensili a Telesalute, per una trasmissione divulgativa di cardiologia, a cui partecipavo accanto a lui, insieme a  Franco Fontanini e a Eligio  Piccolo. 

C’era poi il Simposio di Firenze,  che si annunciava con quelle sue garbate lettere di invito a svolgere una relazione o ad assumere la moderazione di una sessione, in cui sembrava che fosse lui a chiedere a ciascuno degli interpellati un favore, quando conferiva invece ad ogni invitato, quasi una patente di nobiltà. Chiedeva, e con i suoi richiami finiva per esigere, il rispetto dei tempi nella consegna del testo scritto e del mantenimento dei limiti di venti minuti nell’esposizione orale.  E avevamo tutti capito  che per quanti non rispettavano le condizioni richieste o non presentavano relazioni ben documentate ed esposte in modo chiaro  venivano meno le probabilità di un nuovo invito. Voleva che quegli incontri a Firenze non deludessero né i cardiologi, né gli internisti o i medici di medicina generale che vi partecipavano sempre più numerosi: sentiva l’impegno a non tradire le loro attese, ma a corrispondervi fornendo indicazioni pratiche, informazioni e consigli spendibili nell’attività quotidiana.  Per sé riservava una brevissima introduzione ai lavori, qualche relazione con i suoi collaboratori, alcuni interventi su argomenti particolari che soltanto medici con la sua esperienza, la sua cultura e la sua posizione avrebbero potuto trattare.  Si chiedeva nel 1991, insieme a Fontanini e a Francesco Prati. «che voto dare alla cardiologia italiana?».  Rifuggendo dai facili trionfalismi, cha a lui davvero non piacevano, e facendo altresì ampio ricorso all’ironia, affermava che vi erano ombre, dovute al fatto che «gli ospedali sono affidati ad una gestione politico-partitica rivelatasi fallimentare», ma anche luci rintracciabili in una ricerca «affidata alla capacità e all’entusiasmo del singolo in un paese di buone tradizioni»,  e finiva per concludere che «il voto potrebbe essere molto più alto se alla bravura dei singoli corrispondesse l’efficienza dello Stato».  Una tesi che vale ancora, a quasi vent’anni da quando è stata enunciata. 

Nel 2003, insieme a Labellarte, poneva sul tappeto una domanda provocatoria: «siamo sicuri che il cardiologo moderno, supertecnologico, sappia ascoltare il cuore?». E, per una volta, parlava di sé, esprimendosi in questi termini:

 

Io sono stato un medico  che ha discusso molto, forse con pedanteria, con elucubrazioni eccessive ed acrobatiche, su che cosa ci offrisse l’ascoltazione di un cuore e che cosa significasse un reperto acustico.  Oggi vengo punito.  Sono circondato da valentissimi cardiologi e sento fino in fondo il privilegio di esserlo.  Ma quando chiedo loro come sta l’ultimo grave cardiopatico ricoverato so già che mi informeranno sulla presenza o assenza di “rantoli basali polmonari” o “rumori umidi alle basi”.  A questo laconico bollettino segue sempre una dettagliata illustrazione di ciò che hanno detto l’ecocardiogramma e l’ultimo telecuore.  Non sono contento, anzi mi vado convincendo che i “rumori umidi alle basi” stanno diventando l’eco di ciò che fu la clinica del cuore, il commiato da un esame obbiettivo che rappresentò la principale fonte del nostro sapere e che non merita di essere accantonato, anche se a favore di tecnologie di prim’ordine.

 

Quella parola «commiato» mi ha colpito.  Mi è parso di capire che Gigi stesse parlando, del commiato che la medicina, la sua medicina, quella che aveva conosciuto, praticato ed amato stava prendendo da Lui.  C’era nelle sue parole l’ombra della nostalgia per un tempo irrevocabilmente trascorso; c’era acuto il suo senso autocritico che gli faceva temere di essere un superato.  Ma c’era insieme a questo l’orgoglio di essere ancora il campione della grande clinica cardiologica, in cui la specialità viveva nell’alveo della clinica medica: il cuore all’interno di un corpo e il corpo all’interno di una persona.  Erano la sua la specializzazione in Cardiologia (Pisa, 1956), la libera docenza in Semeiotica medica e  quella in Patologia medica, ottenute durante la sua permanenza  nella Clinica Medica di Modena alla scuola di Edoardo Storti, a testimoniare di una preparazione specialistica innestata nel più vasto orizzonte di una preparazione internistica generale.  Sulla base di quella sua formazione così ampia e di un profondo senso di rispetto verso l’altro, Pier Luigi Prati avvicinava i suoi pazienti, come ho potuto constatare in tante circostanze.

Quando mi comunicò – poco più di un anno fa – che lasciava la sua attività professionale, me lo disse con distacco, come se la sua decisione fosse dettata soltanto da motivi razionali: un giudizio su se stesso.  Si sentiva come  uno che non fosse più certo di poter corrispondere alle esigenze dei pazienti e dei tanti colleghi che gli inviavano malati per consulenza. La malattia, si era aggiunta all’età e la corsa veloce del progresso aumentava il disagio: non voleva essere meno di ciò che era stato per tanti anni, voleva chiudere in bellezza.  Era una scelta difficile e coraggiosa:  seppe farla e volle anche, con molto garbo, comunicarla ai lettori di «Cuore e Salute».

Ma un altro confronto incombeva, quello con la vecchiaia e la morte. 

Sulla prima aveva scritto più volte. In un breve pezzo su «Cuore e Salute» del gennaio-febbraio 2006, intitolato Io e la vecchiaia, si difendeva da chi lo accusava di avere, in un precedente articolo, parlato male della vecchiaia e ribadiva il proprio giudizio: «una catastrofe di natura estetica, virile, creativa, temperamentale e – considerando l’egoismo dei vecchi – pure affettiva».  Salvò soltanto i ricordi, segno che ne conservava abbastanza per trarne conforto nei momenti di tristezza. 

Quanto alla morte, cosa può pensarne un uomo quando dentro di lui si insinua la certezza che essa non è più evento possibile, quale è sempre, ma qualcosa di imminente. Di più: cosa può pensare un medico consapevole dei suoi mali?  Non certo ciò che lo stesso Gigi – presentando  nel 2005   in questa Accademia il mio libro Malattie come racconti – riferì  di aver pensato quando, a 15 anni, si ammalò.  «Quell’anno – disse – fu il più brutto della mia vita. Non per la malattia, ma per la mortificazione e la vergogna di essere ammalato».  Per il giovane, infatti, la malattia è un “tradimento”, perché è qualcosa che non gli appartiene, un evento che ha sbagliato indirizzo.  Il giovane confida nella propria forza e sente la morte come qualcosa di così remoto da essere per lui pressoché irreale.  Ma da vecchi?  Da vecchi è molto diverso. 

Su «Cuore e Salute», la rivista cui non ha mai cessato di rivolgere le sue cure più attente, Gigi ha scritto sulla morte una pagina delicata e sommessa. Il pezzo, pubblicato nel numero 5-6 del 2006, è intitolato Parlami d’amore Mariù, lo stesso titolo   di una canzone dei suoi – dei nostri – anni giovani.  Dietro quel titolo e quella canzone c’era una donna reale che Bixio, l’autore della canzone, aveva amato e sposato.  Scrive Gigi:

 

Se ne è andata pochi anni fa dopo una serie di aggravamenti della malattia.  Nelle lunghe giornate tra letto e poltrona, una sola cosa, a detta dei figli, le dava un po’ di conforto: riascoltare, attraverso il pianoforte suonato dal figlio Andrea, le note della sua canzone.

 

Dunque, i ricordi, ancora i ricordi. Sono essi, voglio pensare, che avranno tenuto compagnia a Gigi negli ultimi mesi della sua vita. I ricordi più belli, quelli che hanno dato sapore alla sua vita. L’amore di sua moglie, la gioia di una famiglia cresciuta in sintonia con i valori più veri, il calore della sua casa e dei suoi amici, la consapevolezza di una vita ben spesa.