Modelli interpretativi delle origini del cancro

 

 

M. Lopez

 

 

Nel corso dei secoli la gravità e l’incomprensibilità della natura del cancro hanno continuamente stimolato la mente umana a cercare di spiegarne le origini, ricorrendo anche alle ipotesi più fantasiose. Ricordarle tutte le teorie di volta in volta formulate sarebbe lungo e, di certo, anche noioso, mentre più istruttivo appare limitarsi ad alcune interpretazioni che hanno costituito modelli di riferimento secondo la concezione di Thomas Kuhn.

Il primo modello, il più antico, è anche quello che ha avuto la vita più lunga. Risale infatti a Ippocrate e riguarda i quattro umori presenti nel corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera o atrabile. Galeno (129-210 d.C.) aveva perfezionato la teoria umorale attribuendo l’origine del cancro a un eccesso di atrabile, l’umore del temperamento melanconico talché, egli sosteneva, erano i soggetti depressi ad ammalare più frequentemente di cancro. I tumori, nell’accezione più vasta del termine, furono suddivisi in tre grandi gruppi: Tumores secundum naturam (aumenti di volume fisiologici, come lo sviluppo dell’utero durante la gravidanza o delle mammelle durante l’allattamento), supra naturam (dovuti a spostamenti di parti naturali, come nel caso di lussazioni o fratture), e praeter naturam (tutti gli altri, prodotti da parti non naturali, da tessuti nuovi o dall’accumulo di umori). In questi ultimi era compreso il cancro insieme ad una grande varietà di lesioni di natura non neoplastica.

In seguito alla scoperta della linfa nel 1622 da parte di Gaspare Aselli (1581-1626), la teoria umorale fu sostituita dalla teoria linfatica formulata per la prima volta da René Descartes (1596-1650). I seguaci di questa teoria ritenevano che era la linfa extravasata a produrre i tumori e che l’aspetto diverso in cui essi si presentavano era dovuto al diverso grado di crudezza o di cozione, di acidità o di alcalinità, di densità, di acrimonia, di corruzione e di fermentazione di questo umore, fenomeni a loro volta correlati allo stato naturale della linfa (spessore, imputridimento, immobilità più o meno marcata) e della parte del corpo interessata (maggiore o minore calore).

La teoria linfatica delle origini del cancro ebbe un immediato successo, considerato che la linfa poteva essere facilmente osservata in ogni parte del corpo, a differenza dell’atrabile che, essendo una cosa molto vaga, nessuno aveva mai visto. Purtroppo, però, la nuova concezione non apportava un significativo contributo nell’interpretazione complessiva delle origini del cancro, poiché era stata semplicemente sostituita la bile nera con la linfa.

Nuove ipotesi sulla genesi dei tumori emersero nel XIX secolo con lo sviluppo della teoria cellulare, da cui derivò il concetto di patologia cellulare. Fu la disponibilità di microscopi tecnologicamente avanzati a consentire, per primo, a Johannes Müller (1801-1858) di interpretare i tumori come neoformazioni costituite da cellule ma, ad applicare in maniera dettagliata il concetto di patologia cellulare allo studio dei tumori fu un suo allievo, Rudolf  Virchow (1821-1902). Inizialmente si pensava che la cellula fosse una nuova formazione che avveniva all’interno del blastema (blastón = germe) o citoblastema, una sostanza fluida priva di struttura, omologabile alla linfa plastica, in cui si formavano i nuclei attraverso un processo analogo alla cristallizzazione. Ben presto però la teoria del blastema fu abbandonata in favore della derivazione di ogni cellula da una cellula preesistente, come felicemente sintetizzato nel 1855 dalla famosa affermazione di Virchow omnis cellula e cellula.

Se ogni cellula derivava da un’altra cellula, era evidente che anche i tumori, costituiti al microscopio da un agglomerato di cellule, dovevano trarre la loro origine da una cellula normale dell’organismo. Sorse così il problema di individuare la cellula originaria. Virchow era dell’avviso che i tumori maligni, compresi i carcinomi, fossero generati dalle cellule indifferenziate del tessuto connettivo poiché queste, a differenza di quelle presenti in altri tessuti, conservavano anche in età adulta caratteristiche embrionali. Nel corso degli anni, tale concezione fu però dimostrata erronea prima dal chirurgo Carl Thiersch (1822-1895) nel 1865, e poi da Wilhelm Waldeyer (1836-1921) in due famosi articoli pubblicati nel 1867 e nel 1872. L’importanza delle cellule embrionali, tuttavia, fu riconosciuta da molti e, nel 1877, fu generalizzata da Friedrich Cohnheim (1839-1884), secondo cui tutti i tumori originavano da cellule embrionali. Si trattava di elementi dislocati in sedi anomale durante lo sviluppo embrionale o, più frequentemente, di cellule prodotte in eccesso dopo la formazione dei foglietti embrionali e prima della comparsa di un abbozzo ben definito degli organi. Queste cellule in eccesso, non usate, si distribuivano nei vari tessuti, mantenendo un’elevata capacità moltiplicativa, e potevano andare incontro a trasformazione neoplastica.

Fu anche prospettata, con alterne vicende, una teoria infettiva delle origini del cancro. Se, da una parte, fu riconosciuto che alcuni batteri potevano causare tumori, dall’altra fu soprattutto lo studio dei virus a produrre le conoscenze rivelatesi fondamentali per lo sviluppo delle teorie oggi ritenute valide.

Il contributo più importante alla teoria infettiva della genesi dei tumori va attribuito a Peyton Rous (1879-1970) che, dal 1909, iniziò una serie di esperimenti evidenzianti che il sarcoma dei polli, poi denominato sarcoma di Rous (RSV), poteva essere trasmesso da un animale all’altro mediante l’iniezione di un filtrato della neoplasia. Era, cioè, causato da un virus, poi identificato come virus a RNA. Le ricerche sul virus del sarcoma di Rous ripresero dopo vari decenni al California Institute of Technology, Pasadena, presso il laboratorio di Renato Dulbecco, e furono condotte da Howard Temin. Nel 1970, insieme a Satoshi Mizutani, Temin identificò la trascrittasi inversa, l’enzima capace di sintetizzare DNA partendo dall’RNA.

Scoperto così il modo di riproduzione dei retrovirus, restava da scoprire attraverso quali meccanismi si effettuasse la loro attività oncogena. Era stato evidenziato che il potere oncogeno di RSV era dovuto a un singolo gene denominato src (pronuncia sarc, abbreviazione di sarcoma). Il genoma di RSV, infatti, appariva strettamente correlato a quello di un comune agente infettivo dei polli, il virus ALV (avian leukosis virus). Entrambi i genomi condividevano tre geni (gag, pol, env), ma RSV ne aveva un quarto, il gene src appunto, che codificava la proteina non recettoriale Src, dotata di attività tirosinchinasica, cui si deve l’attività oncogena.

Prima dell’infezione, le cellule non avrebbero dovuto contenere nel loro genoma sequenze di DNA correlate al gene src, ma queste dovevano facilmente riscontrarsi dopo l’infezione perché apportate dal virus RSV. Non senza sorpresa, nel 1975 Harold Varmus e Michael Bishop, usando apposite sonde, osservarono invece che nelle cellule normali di molti animali, compresi i vertebrati, era presente un gene strettamente correlato a src, denominato c-src per distinguerlo da quello virale, v-src. Si pensò, pertanto, che il progenitore di RSV non contenesse v-src, come altri retrovirus attuali, e si moltiplicasse nei polli, come i suoi simili, senza trasformare le cellule. Fu nel corso di una delle sue incursioni in qualche cellula che catturò una copia del gene c-src incorporandola nel proprio genoma. Successivamente, questa copia andò incontro a mutazione, generando il nuovo gene virale v-src, che ha consentito a RSV di trasformare le cellule parassitate in successive incursioni. Pertanto, la cellula normale contiene un gene (c-src), denominato proto-oncogene, che ha la capacità potenziale di essere attivato in oncogene attraverso una mutazione.

Alla scoperta degli oncogeni fece seguito quella dei geni oncosoppressori. Nel 1969, Henry Harris, professore di Medicina all’Università di Oxford, provò a fondere fisicamente una cellula tumorale con una normale per vedere quale dei due genomi prendesse il sopravvento. Con meraviglia osservò che veniva assunto il fenotipo normale, cioè gli alleli normali erano dominanti e quelli della cellula tumorale recessivi. Ciò significava che le cellule normali possedevano geni deputati al controllo della crescita (cioè, con funzione opposta a quella degli oncogeni), la cui funzione era andata perduta nella cellula tumorale, probabilmente in seguito ad una mutazione. Allorché questi geni normali venivano introdotti (fusione cellulare) nella cellula neoplastica, esplicavano la loro funzione ripristinando il comportamento normale della cellula e, di fatto, sopprimevano il fenotipo tumorale (da ciò il nome di tumor suppressor genes, geni oncosoppressori).

L’ipotesi di Harris sull’esistenza di geni oncosoppressori fu confermata da Alfred Knudson all’inizio degli anni 1970 studiando i tempi di comparsa del retinoblastoma ereditario e sporadico. Knudson formulò la two hit hypothesis, secondo la quale entrambi gli alleli di un gene oncosoppressore (recessivo) devono essere inattivati affinché possa manifestarsi l’attività oncogena. La prima mutazione inattivante viene trasmessa attraverso la linea germinale, la seconda invece è di natura somatica.

L’ipotesi di Knudson è stata confermata dalla scoperta, nel 1979, di una delezione in 13q14 nel cariotipo di un retinoblastoma che si rivelò, poi, comportare la perdita di un gene denominato RB. Nel 1983, fu evidenziato che il secondo evento determinava la perdita della seconda copia del gene RB ereditata intatta. Ciò significava che la prima mutazione (germinale) aveva lasciato una copia intatta del gene in grado di mantenere il controllo della crescita. Solo in seguito alla perdita del secondo gene (mutazione somatica) poteva iniziare la proliferazione neoplastica.

Si è potuto anche constatare che esiste un’altra categoria di geni aventi, come i geni oncosoppressori, un ruolo nella patogenesi dei tumori familiari. Sono quelli addetti al mantenimento dell’integrità del genoma, condizione indispensabile per ridurre significativamente la frequenza d’insorgenza di mutazioni. Ciò significa che esistono due distinte classi di geni correlati allo sviluppo di neoplasie familiari. I geni oncosoppressori esercitano un controllo diretto sulle cellule, intervenendo su come esse devono proliferare, differenziarsi o morire. Essi sono anche chiamati gatekeepers per indicare che provvedono a consentire o non consentire l’entrata delle cellule nel ciclo cellulare che conduce alla divisione della cellula. I geni che mantengono l’integrità del genoma, invece, agiscono sulle cellule solo indirettamente poiché controllano la frequenza con cui esse vanno incontro a mutazioni. Sono anche denominati caretakers poiché si prendono cura di mantenere inalterato il genoma cellulare, provvedendo alla riparazione del danno al DNA.

La scoperta degli oncogeni e dei geni oncosoppressori, unitamente alla delucidazione del ruolo dei geni riparatori del danno al DNA, ha radicalmente cambiato il modo di concepire l’origine del cancro, facendo di questo una malattia genetica. Oggi si ritiene che il cancro sia una malattia monoclonale, cioè che ogni tumore derivi da una singola cellula che va incontro a successive modificazioni evolutive verso il fenotipo neoplastico in seguito all’insorgenza di una serie di mutazioni a carico di vari geni.

Il paradigma genetico delle origini del cancro si è rivelato di grande utilità non solo da un punto di vista diagnostico, ma anche per classificare in maniera più appropriata i vari tipi di tumori. Ha anche dato origine a una nuova forma di terapia, denominata terapia molecolare, che ha già contribuito a modificare significativamente la storia naturale di alcune neoplasie. Il cammino da percorrere è tuttavia ancora molto lungo, anche se è verosimile che le numerose ricerche nel settore, condotte in varie istituzioni in tutto il mondo, apporteranno nei prossimi anni le conoscenze necessarie per migliorare la diagnosi, la terapia e la prognosi di questa malattia che ancora è causa di un grande numero di decessi.

 

Bibliografia essenziale

 

Lopez M, Gebbia N, Cascinu S, Marchetti P (eds.): Lopez Oncologia Medica Pratica (3a ed). Roma, Società Editrice Universo, 2010

Rather LJ. The Genesis of Cancer. Johans Hpkins University Press, Baltimore, 1978

Varmus H. The Art and Politics of Science. New York, W. W. Norton & CO, 2009

 

 

 

 

Prof. Massimo Lopez

Primario Emerito di Oncologia Medica

Istituto Nazionale Tumori Regina Elena, Roma