THE MISTERY OF THE MISSING SHIPS

La scomparsa delle navi di Sir John Franklin nell’Artide e la possibile spiegazione

medica dell’accaduto

 

Prof. Fabio Fabiani

 

 

Non sono stato io a proporre questa conferenza: i colleghi del Direttivo mi chiesero di discutere un argomento interessante nella nostra Accademia ed io, benché fossi un poco riluttante, alla fine mi decisi a parlare di questo appassionante e tragico avvenimento, anche perché, come saprete alla  fine, la Medicina ha di che dire di suo  su quanto accadde. Ho acconsentito, vi ripeto, quasi un poco contro la mia volontà: ma sono molto grato al Presidente, ai colleghi del Direttivo e a tutti voi,  amici e colleghi che siete venuti ad ascoltarmi, per la  stima e l’interesse che questa richiesta e la vostra presenza dimostrano.

Il 19 maggio 1845 Sir John Franklin, al comando di due navi perfettamente equipaggiate  per i viaggi tra i ghiacci dell’Artide, dotate di ufficiali e marinai di  grande esperienza e abilità, fornite di ogni più moderna apparecchiatura (compresa, oltre la velatura, una macchina a vapore e relativa elica per ciascuna nave) partirono tra grandi festeggiamenti, per ordine dell’Ammiragliato Britannico, per un  viaggio nell’Artico Nord Americano che, si riteneva, avrebbe definitivamente trovato e percorso il celeberrimo Passaggio a Nord Ovest.

Passata la punta meridionale della Groenlandia, il  4 luglio 1845, le due navi presero brevemente terra nella stazione baleniera di Disko (costa occidentale della Groenlandia) per imbarcare altro carbone e altri viveri (pesce disseccato) e per inviare lettere a casa. Il 12 luglio 1845 ripartirono per risalire la Baia di Baffin verso Nord.

Furono viste l’ultima volta il 26 luglio da due piccoli velieri balenieri. Dopo questo incontro, sparirono e non si ebbe più alcuna notizia delle due navi, che tutti consideravano destinate a un brillantissimo successo.

Quando, due – tre anni dopo, in assenza di ogni notizia, si cominciò ad avere ansiosa preoccupazione, sia l’Ammiragliato sia alcuni privati mandarono delle spedizioni di ricognizione e soccorso: ma nulla fu trovato. Le due navi sembravano scomparse nel nulla senza lasciare traccia. Alcuni hanno calcolato in oltre cinquanta le spedizioni di soccorso inviate per cercare notizie, ma benchè in virtù di esse si fosse enormemente ampliata la conoscenza  del complicato arcipelago artico nord americano, la sorte delle due navi rimase avvolta nel mistero, un mistero che appassionò non  solo l’Inghilterra e l’America, ma l’intero mondo civile. Solo il 5 maggio 1859, quattordici anni dopo, fu trovato un modesto documento che rivelava parte di  ciò che era accaduto.

Per  spiegarvi perché l’Ammiragliato Britannico avesse ritenuta la spedizione di Franklin così importante e così sicura di raggiungere il successo, io comincerò con il narrarvi a grandi linee quale era, nella prima metà dell’800, la conoscenza dell’arcipelago artico nord americano e del relativo, celeberrimo, ma mai sino ad allora dimostrato, “Passaggio a Nord Ovest”, una via a nord dell’artico canadese che avrebbe dovuto permettere di raggiungere con relativa facilità i mercati dell’Oriente, evitando la lunga circumnavigazione delle Americhe. I tentativi di trovare questa via erano cominciati nel tardo ‘500 e continuati nel ‘600, e credo che a  tutti  voi siano noti i nomi dei Caboto, di Barents, di Hudson, di Frobisher e infine di Davis e del suo straordinario pilota dei  ghiacci, Baffin. Quest’ultimo, nel 1616, risalì tutto il vasto mare tra la Groenlandia e le isole nord canadesi, e giunse estremamente a nord, ove la baia che porta oggi il suo nome terminava in tre grandi canali che egli denominò Smith Sound, Jones Sound, Lancaster Sound. Erano tre vie destinate a grandi glorie: attraverso il primo, tre  secoli dopo, sarebbe stato raggiunto il Polo Nord. E attraverso gli altri due due secoli dopo sarebbe stato esplorata dai norvegesi la parte più settentrionale dell’arcipelago e dagli inglesi raggiunto e scoperto il Passaggio a Nord Ovest. Ma chi pubblicò il viaggio e i risultati di Baffin ritenne inutile e costoso inserire la mappa che egli aveva disegnato accuratamente, con i dati precisi di navigazione e dei tempi. La conseguenza fu che lo straordinario viaggio di Baffin fu dimenticato per due secoli e che l’Inghilterra non si  interessò più alla soluzione del problema.

Ma al termine delle Guerre Napoleoniche l’Inghilterra si trovò padrona dei mari, con una grande flotta e centinaia di splendidi ufficiali, senza più necessità di combattere con le sue navi e i suoi marinai. L’avidità di conquista e di gloria andò evolvendo da una bramosia di estendere la  sovranità inglese a un  desiderio di scoperte, rivolto ad ogni parte del mondo – si pensi  solo al viaggio di FitzRoy e Darwin – ma anzitutto all’esplorazione dell’Artide e alla ricerca del fascinoso Passaggio a Nord Ovest. Io non ho intenzione di tediarvi con un elenco (che sarebbe pedante e inutile) di tutte  le spedizioni intraprese, ma ritengo necessario accennarvi ad alcune che ebbero particolare importanza per il problema del Passaggio, cercando di rendere più divertenti queste storie con la proiezione, dai libri della mia biblioteca, di alcune figure in essi contenute.

Voglio premettere una mappa e una fotografia: la mappa è quella della parte centrale dell’arcipelago artico canadese quale sappiamo oggi essere; la fotografia riguarda la stessa regione, ma è presa da un satellite. Essa dimostra molto bene come le linee blu, evidenzianti il mare libero da ghiacci, si insinuano pressochè sempre fra isola e isola. Ma riprese ripetute dimostrano che possono continuamente variare, per cui un medesimo passo o canale può a volta essere  gelato e talvolta pericolosamente gelato, con enorme spessore del ghiaccio, altre volte navigabile. Questa fu ed è la difficoltà di effettuare un passaggio nell’arcipelago  artico nord canadese e la causa della tragedia della spedizione di Franklin.

Accennando a quelle sole spedizioni che ebbero particolare importanza per i risultati raggiunti, tra le prime navi inviate furono (maggio 1818) l’Alexander e l’Isabella, sotto il comando di un attento ma forse  troppo prudente esploratore, John Ross. Risalirono, due secoli dopo, la Baia che aveva scoperto Baffin, e le ingenue ma affascinanti illustrazioni che vi propongo mostrano un incontro con gli orsi e poi l’incontro con gli eschimesi di Etah (battezzata l’Estrema Thule), che credevano di essere i soli esseri umani esistenti al mondo: li vediamo stupirsi vedendosi ritratti in uno specchio. Erano persuasi che le due navi fossero due grandi uccelli di un tipo a loro sconosciuto, le cui ali erano le vele. Ross raggiunse l’estremo nord della Baia di Baffin, trovò lo Smith, lo Jones e il Lancaster Sound, ed entrò in quest’ultimo con mare libero. Ma credette di vedere una catena di monti che lo chiudeva sul fondo e tornò indietro, malgrado Edward Parry, suo comandante in seconda, lo spingesse a continuare.

La conseguenza fu che al ritorno in Inghilterra, malgrado la precisione con la quale Ross aveva rilevato e descritto l’andamento delle coste, la spedizione venne considerata un insuccesso e nel maggio dell’anno seguente (1819) due nuove navi, la Hecla e la Griper, al comando di Parry, non ancora trentenne, furono inviate ad esplorare il Lancaster Sound.

Fu un successo senza precedenti: il mare era libero e nel settembre 1819, sempre navigando verso ovest, le due navi attraversarono il meridiano 110 W di Greenwich, guadagnando il premio di 5000 sterline che l’Ammiragliato aveva offerto a chi per primo fosse capace di raggiungere tale meta all’interno del circolo polare artico. Ma c’è di più: durante la navigazione man mano l’ago della bussola si era  spostato sino ad un  certo punto ad indicare il sud, erano cioè passati a nord del Polo Magnetico Terrestre! Il morale dell’equipaggio era alle stelle, anche se l’ultimo  canale che li divideva dal presunto  mar polare libero fu trovato ghiacciato. Sulla loro destra esisteva una grande isola, che Parry denominò Terra di Melville: egli decise di rifugiarsi ivi in una rada (per farvi entrare le due navi fu necessario l’equipaggio segasse un canale nel ghiaccio) che chiamò Winter Harbour, e trascorrere ivi l’inverno. La figura  che vi proietto evidenzia lo sverno: l’alberatura delle due navi è in gran parte ammainata, per  difendersi dalle tremende bufere invernali, e le due navi sono coperte da un tetto di teloni e legno, onde avere il ponte  libero sia per far eseguire agli uomini esercizi fisici, sia per permettere rappresentazioni teatrali che gli ufficiali, camuffandosi anche da donne, mettevano in atto ogni settimana per il divertimento dei marinai. Furono istituite delle scuole per far apprendere a leggere e scrivere chi non ne fosse capace, e settimanalmente venne pubblicata una divertente “North Georgia Gazette and Winter Chronicle” che anche molto contribuì al benessere fisico e mentale degli uomini della spedizione.

Alla primavera seguente (1820) le due navi cercarono di forzare il canale ghiacciato che si trovava tra l’isola Melville, ove avevano  svernato, e una terra  che vedevano, circa 50 miglia più a sud, e che chiamarono Terra di Banks: fu facile uscire dalla rada   e trovarsi di nuovo in mare libero, ma il ghiacio che chiudeva il canale restò inesorabile e il passo rimase chiuso. Parry dopo molteplici tentativi decise per il ritorno, fu accolto in Inghilterra come un eroe e insignito del titolo di baronetto. Negli anni seguenti fece altri tre viaggi polari, scoprì e mappò altre isole e canali, ma non ebbe mai più il  successo trionfale  del primo viaggio, che rimase e resta la pietra miliare del Passaggio a Nord Ovest.

Ma contemporaneamente alla spedizione di Parry l’Ammiragliato lanciò una spedizione  terrestre. Quando partirono le spedizioni di Ross e Parry tutta la  vasta costa canadese era  del tutto ignota per migliaia di miglia, salvo due punti, molto distanti tra loro: la foce del fiume Coppermine, disceso da Hearne nel 1769, e la foce del fiume Mackenzie, disceso nel 1785 da questo esploratore e da lui denominato. In base alle relazioni pubblicate, le due foci sboccavano in mare libero. Sir John  Barrow, segretario dell’Ammiragliato, pensò che inviare una minuscola spedizione via terra per rilevare almeno in parte la costa sarebbe stato non solo utile, ma semplice, poco costoso e senza rischi. A capo venne proposto il luogotenenete John Franklin.

Questo giovane ufficiale (era nato nel 1786) apparteneva a una famiglia inglese bene in vista ed era in Marina dall’età di 12 anni come guardiamarina. A 15 anni, a bordo della Polyphemus, aveva preso parte al bombardamento di Copenhagen. A 17, su una piccola nave, aveva partecipato alla circumnavigazione dell’Australia, al carteggio della grande Baia del sud e del golfo di Carpentaria, e persino naufragato sugli scogli della Grande Barriera. A 19,  alla battaglia di Trafalgar, la sua nave, il Bellerophon, fu duramente attaccata da cinque navi francesi: sotto un fuoco terribile dall’alto degli alberi, trentatre dei quaranta ufficiali furono uccisi o orribilmente feriti, assieme a duemila marinai. Franklin riuscì illeso, occupato come era nel suo ufficio di addetto ai segnali. Non aveva un carattere di guerriero, capace di prendere decisioni di combattimento, come il suo camerata Price Cumby, che alla morte del comandante prese il comando della nave e combattè così coraggiosamente che poi a 28 anni venne promosso capitano. Franklin eseguiva gli ordini e faceva il suo dovere, ma senza alcun tentativo di distinguersi.

Quando, nel 1819. l’Inghilterra lanciò con grande entusiasmo e molte speranze Parry in quel viaggio destinato a divenire celebre per il suo straordinario successo. Sir John Barrow fece partire una contemporanea spedizione via terra intesa a discendere il fiume Coppermine e rilevare poi verso oriente la costa. Egli pensava giustamente che l’impresa avrebbe potuto aiutare la scoperta del Passaggio di Nord Ovest, ma sbagliava nel ritenere la spedizione, senza rischi di navi, semplice e facilmente attuabile da un qualsiasi buon ufficiale. Il comando venne affidato al luogotenente Franklin.

In realtà, questa spedizione fu un vero disastro, con la morte di nove dei ventuno uomini che lasciarono Fort Enterprise per fame, scorbuto e freddo, e altri due che furono assassinati. Soprattutto fu chiaro che Franklin non evidenziò mai una vera capacità di comando e che non esistette mai una disciplina. Le gravi difficoltà e le morti furono dovute  ad errori di Franklin, al suo non aver ascoltato i consigli di Akaitcho e dei suoi indiani della Hudson Bay Company, e se alla fine Franklin fu  salvato, sulla soglia della morte per fame e per freddo, lo dovette alla marcia eroica di un suo giovane ufficiale, il guardiamarina George Back, che riuscì a raggiungere gli indiani Chippewyan e a persuadere Akaitcho e i suoi uomini a una dura  e difficile marcia, con una temperatura che spesso raggiunse i 57° sotto zero, per trovare e salvare i pochi sopravvissuti. Ma, ironicamente, Franklin,  al suo ritorno in Inghilterra,  si trovò all’acme  della notorietà: era l’intrepido esploratore che era riuscito a sopravvivere mangiando i suoi stivali, e aveva mappato circa trecento miglia di costa artica nord canadese. Vi erano stati undici morti, è vero, ma si trattava di mezzo sangue figli di indiane e voyageurs canadesi.  Per di più, il suo libro con belle illustrazioni a colori, fu un successo editoriale.

Franklin fu promosso finalmente capitano, si sposò, ebbe una figlia, e pochi mesi dopo l’Ammiragliato lo mise a capo  di una nuova spedizione terrestre per mappare la linea costiera a ovest e a est del fiume Mackenzie. L’Ammiragliato si era reso conto della pessima organizzazione della prima spedizione e questa  volta organizzò tutto bene, fornendo ottime barche di legno, abbondanza di viveri e buon numero di accompagnatori indiani come cacciatori. La conseguenza fu che tutto andò bene, non fu perso un solo uomo, e mentre Franklin delineava seicento miglia di costa ad ovest della foce del Mackenzie, il suo compagno dottor Richardson mappava mille miglia di coste sconosciute ad est.

Al ritorno, Franklin fu accolto come un eroe e fu lo zenith della sua carriera. Trovò che durante il viaggio gli era morta la moglie, ma si risposò subito con un’amica di lei. La nuova Lady Franklin era una donna vivace, intellettuale, ultra femminista, e credeva che il suo principale dovere fosse far fare ulteriore carriera al marito, sopra tutto come  esploratore. In realtà per molto tempo non riuscì in ciò che desiderava, e alla fine dovette accontentarsi di fargli avere il posto di Governatore della Tasmania, allora una colonia penale. I Franklin si trovarono là tutt’altro che bene, e tentarono anche di migliorare la durissima vita che veniva imposta ai prigionieri: ciò mise contro di loro la piccola e sordida borghesia della colonia, che richiese il loro richiamo. Nel 1843 la coppia si imbarcò per l’Inghilterra.

Abbiamo visto che dopo l’abbagliante successo del primo viaggio le sucessive spedizioni di Parry, pur estendendo la conoscenza di coste, isole e canali, furono ben lontane dal trovare il tanto desiderato Passaggio a Nord Ovest. Ciò scoraggiò l’Ammiragliato inglese e il Governo, che entrarono in una specie di apatia. Ma l’iniziativa venne ripresa da alcuni privati: fu Felix Booth, ricco fabbricante di gin,  che si offerse di finanziare un nuovo viaggio. La nave fu la Victory, una nave a vapore a ruote, e il comando venne dato a John Ross, il grande esploratore che era stato messo da parte dopo il suo errore del 1818. Con lui navigava un gruppo selezionato di ottimi marinai esperti dell’Artide, tra cui il nipote James Clark Ross, che aveva preso parte ai viaggi di Parry.

Il viaggio durò quattro anni (1829 – 1833). Questa volta la cautela e l’attenzione del vecchio, unite all’audacia e all’energia del giovane, portarono a un brillante risultato. Venne scoperta e mappata una lunga penisola che si estendeva per centinaia di miglia dal Canadà verso nord, e che in onore di chi aveva finanziato la spedizione venne chiamata Boothia Felix, la Boothia felice. Venne determinata l’estremità più settentrionale del nord America e vennero eseguite molte esplorazioni in slitta che permisero tra l’altro di raggiungere un punto ove l’ago della bussola guardava  il suolo perpendicolarmente: era il Polo Nord Magnetico. James Clark Ross poi su slitte trovò una grande terra ad ovest della Boothia Felix che chiamò King William’s Land.

Purtroppo qui non si accorse che tra questa terra  e la costa canadese più a sud non vi era, come lui credette, una connessione terrestre, ma un canale. L’errore fu dovuto forse al fatto  che il canale era gelato e tutto ricoperto di neve fresca: ma la conseguenza di questa erronea interpretazione significò la tragedia della spedizione di Franklin di cui parleremo.

Durante tutto il loro viaggio i due Ross fecero amicizia con gli  eschimesi, commerciarono con loro, e con enorme capacità e intelligenza riuscirono a sopravvivere a quattro sverni nell’Artide, perdendo tre soli uomini e non per cause artiche. Al ritorno, John Ross riebbe il posto tra gli esploratori celebri dal quale forse era stato  tolto troppo in fretta nel 1818.

Nel 1833, non avendosi ancora notizia dei due Ross e della Victory, partita nel 1829, Back accettò di  ripartire in loro soccorso con una spedizione terrestre, appoggiata dalla Hudson Bay Company e con degli indiani, per scoprire dove arrivava un grande fiume. che gli indiani chiamavano Gran Fiume del Pesce, affermando che scorresse a nord  est sino al mare, in genere, ma non sempre, gelato, presso a poco là dove si credeva si fossero diretti  i Ross. Non trovò questi ultimi, che nel frattempo erano riusciti a tornare in Inghilterra, ma furono  definitivamente stabiliti l’esistenza, il decorso e la foce del gran Fiume.

 

Ormai lo scenario era stato stabilito, le conoscenze moltiplicate, poche centinaia di miglia erano restate inesplorate. L’Inghilterra voleva che il Passaggio a Nord Ovest venisse scoperto e percorso e con particolare accanimento voleva ciò Sir John Barrow, il secondo segretario dell’Ammiragliato. Egli non voleva assolutamente lasciare questa gloria a una spedizione francese o alla Compagnia della Baia di Hudson: l’esplorazione era la sua passione e persino il viaggio di FitzRoy e Darwin era stato una sua idea. Ora, il suo sogno era scoprire e percorrere il  Passaggio a Nord Ovest. E si dedicò anima e corpo, benchè ormai molto vecchio, all’organizzazione di una spedizione che avrebbe dovuto costituire non solo la gloria dell’Inghilterra, ma anche un  suo personale successo.

Furono scelte due navi perfette, l’Erebus e la Terror, che, già da lui inviate nell’Antartide, non solo si erano ricoperte di onori con le scoperte che avevano permesso, ma avevano  dimostrato grande capacità di affrontare i ghiacci più pericolosi. Per il viaggio ora progettato  lo scafo era stato particolarmente rinforzato. Tutte e due le navi furono fornite di elica, messa in moto da una locomotiva sistemata nella stiva. Questo  fu un primo errore: all’atto pratico si dimostrò poi che le locomotive consumavano un’enorme quantità di carbone per dare alle navi, e solo con mare calmo, una modesta velocità di quattro miglia l’ora.

I viveri e gli antiscorbutici furono calcolati per tre anni. I due più terribili spettri delle navigazioni polari erano: 1°) i ratti, capaci  di moltiplicarsi all’infinito e di  saper rodere e bucare barili e casse; 2°) lo scorbuto. Per limitare al massimo queste due grandi minacce, Sir John  Barrow non volle più l’antiquato sistema della carne salata nei barilotti di legno, ma un sistema più moderno di speciali recipienti metallici saldati e sterilizzati. La saldatura in recipienti stagni metteva al sicuro dall’umidità e dai ratti; i cibi precotti sembravano garantire di rimanere freschi per anni, e così gli antiscorbutici.

Gli equipaggi furono scelti tra  i più esperti, e così gli ufficiali. A capo della spedizione Sir Barrow avrebbe voluto Parry o James Ross, ma ambedue rifiutarono, forse per divieti posti dalle loro mogli. Barrow dovette inchinarsi alla superiore volontà e  conoscenze di Lady Franklin e sia pure a malincuore il comando  venne dato a Sir John Franklin, con Crozier come ufficiale più anziano, comandante di una delle navi. “Sappiate, Sir Franklin, se voi pensaste di non essere più sufficientemente giovane per il compito che vi viene affidato, io potrei  far valere la vostra età di sessantenne per sostituirvi.” gli disse uno degli Ammiragli. “Ma che dite, io ho  cinquantanove anni!” rispose l’interessato. In realtà avrebbe compiuto sessanta anni dopo un mese.

Sir Barrow avrebbe preferito di gran lunga il capitano Francis Crozier, ma dovette rinunciarvi dati gli standards di classe che alla metà dell’800 ancora  dominavano l’Inghilterra. Crozier era un  irlandese del nord, era cattolico e non anglicano, era un ufficiale di Marina stupendo e con enorme esperienza di navigazione tra i ghiacci, ma non era un ufficiale inglese, non un gentleman nel  senso inglese, con prerequisiti di ottima famiglia, relazioni sociali e possibilità di essere introdotto in un club. Sembra impossibile, ma questa era la mentalità inglese alla metà di quel secolo. Pertanto Sir Barrow lo imbarcò come capitano, perché lo ritenne un uomo necessario, ma non gli diede il comando della spedizione. Ed egli partì con grande amarezza nell’animo. Ma c’è di più: il  suo cuore era sentimentalmente ferito. Tornando dai trionfi della spedizione antartica del 1845, ove aveva comandato una delle navi, Crozier era stato accolto, come tutti gli altri ufficiali, con grande affetto e calorosità in Tasmania dalla famiglia di  Sir John Franklin, allora ancora Governatore, e si era pazzamente innamorato di Sophia Cracroft, la vivace e bella nipote di Franklin. Lei aveva dieciannove anni, lui  quarantanove: con la massima cortesia, ma imprudentemente troppo presto, egli la chiese in moglie. Non solo ebbe un sia pur rispettoso rifiuto, ma miss Cracroft gli confessò di aver messo gli occhi sul comandante  della spedizione, Sir James Ross. Crozier fu poi ancor più amareggiato quando al ritorno in Inghilterra Sir James Ross sposò un’altra signora. E nulla esprime meglio il suo profondo disinganno e la sua amarezza di ciò che rispose a un amico che gli chiedeva se pensasse che la grande spedizione in fieri sarebbe tornata: “Non so cosa pensare: ciò che è certo è che  io mi attendo di non tornare.”

Ma dubbi sul felice ritorno della spedizione ci furono da molte parti: Sir John Ross, il vecchio esploratore che aveva rinnovato la sua gloria superando quattro sverni nell’Artide e perdendo solo tre uomini, fece notare a Franklin che nella sua nave, la Victory, dotata solo di  ventitre uomini, questi  erano sembrati in numero eccessivo per dar loro cibo e calore per quattro anni. Franklin portava centotrentaquattro uomini e alcuni assolutamente non necessari per la spedizione: vi erano otto stewards, il cui solo compito sarebbe stato servire gli ufficiali, e tredici marines, presumibilmente del tutto inutili. Le due navi pescavano troppo, notò poi John Ross, e questo poteva costituire un pericolo in canali la cui profondità era ignota. Comunque, concluse Ross, se non vi vedrò di ritorno per il 1848, verrò con una spedizione in vostro soccorso (cosa che egli poi effettivamente fece).

Tutto era ormai pronto per la partenza, ma la Ditta cui l’Ammiragliato si era rivolto (perché aveva offerto i prezzi più bassi) per i viveri in scatole metalliche saldate, a pochi giorni dalla partenza aveva consegnato solo un decimo delle diciottomila promesse. Ciò comprometteva anche la sistemazione a bordo di tante altre provviste.

L’Ammiragliato fece le più energiche proteste, e due giorni prima della partenza gli scatolami metallici giunsero. Ma torneremo su questo punto, e intanto si deve notareche l’Ammiragliato non potè fare alcun riscontro sulla qualità ed efficienza di ciò che era stato ordinato e consegnato.

Il 19 maggio 1845 una folla enorme si raccolse a Greenhithe per salutare le navi che partivano. Franklin sventolava un drappo di seta dai brillanti colori, onde la moglie e la figlia lo potessero localizzare. Si sa che a terra era anche presente  Sophia Cracroft, ma si pensa che Crozier, amareggiato, ovunque guardasse salvo la folla di chi li salutava.

Abbiamo già visto che  salvo i pochi sbarchi e avvistamenti, l’ultimo il 26 luglio 1845, le due navi sparirono nell’Artide, e non si ebbe più alcuna notizia di loro. Per anni tuttavia nessuno si preoccupò. Fu soltanto alla fine del 1847 che l’ansia e l’incertezza cominciarono a levarsi.

Da più parti si chiese l’invio di spedizioni di soccorso. All’inizio l’Ammiragliato rimase sordo, ma poi, pressato da mille diverse direzioni, cominciò a organizzare tutta una serie di viaggi. E’ difficile calcolare quante spedizioni furono inviate, ma certamente, in complesso, non meno di cinquanta. Ma nulla fu trovato, anche perché molte volte navi e uomini furono inviati in zone nelle quali era del tutto improbabile che Franklin si fosse diretto. Per effetto di tutte queste spedizioni la conoscenza dell’arcipelago artico nord canadese fu  enormemente ampliata, ma una sola traccia della spedizione di Franklin venne trovata: nell’inverno 1845-46 le due navi avevano svernato a Beechey  Island, una piccola rada subito a nord dell’ingresso nel Lancaster Sound, e ivi erano morti tre marinai. Le lapidi di  spesso legno, con incisi i nomi dei tre primi morti, che risultavano nelle liste equipaggi dell’Ammiragliato, testimoniavano con sicurezza che ivi era avvenuto  lo sverno.

Sarebbe ora impossibile darvi le descrizioni di tutto ciò che le spedizioni di soccorso fecero e scoprirono: questo è compito della  storia dell’Artide. Ma voglio fare una sola eccezione, l’incredibile storia e fortuna dell’Investigator. Questa nave, al  comando di  uno splendido capitano, lo  scozzese McClure, era stata inviata nel 1850 via Pacifico, sino oltre lo stretto di Bering per cercare eventuali tracce di  Franklin in quella parte dell’Alaska e della costa canadese. Favorita da bel tempo e mare libero, la nave navigò a lungo verso est e raggiunse infine una grande terra, divisa da un largo canale navigabile dalla costa canadese. McClure si avviò in esso. Il canale poi volgeva a nord, e senza paura McClure lo percorse  con l’Investigator, tra il più grande entusiasmo del suo equipaggio, sino ad arrivare a poche miglia di distanza dalla Winter Bay ove Parry era giunto nel 1819: il Passaggio  a Nord Ovest era stato scoperto! Ma il ghiaccio impedì di raggiungere la Winter Bay di Parry. McClure allora tornò indietro e circumnavigò tutta l’enorme isola (è la Terra di Banks, che Parry aveva intravisto a sud della baia ove aveva svernato) risalendola lungo i limiti ovest e cercando poi a nord di penetrare verso est nel Lancaster Sound. Ma trovò ghiacci immensi, spinti da venti formidabili, e la nave fu sul punto di essere distrutta. La straordinaria energia di McClure e del suo equipaggio evitarono il peggio, spezzando i ghiacci con cariche di dinamite la nave fu fatta avanzare sino alla costa di Banks e ricoverata alla meglio in una piccola baia. Ma non ci fu più verso di liberarla dalla presa dei ghiacci, e dopo due anni di sverno si decise di abbandonarla e tentare una marcia disperata a sud sino a raggiungere la costa canadese e forse trovare lì delle navi baleniere. Ma prima McClure volle che le scoperte fatte non andassero in ogni eventualità perdute, e con una veloce marcia in slitta fece raggiungere la Winter Bay e depositare ivi la storia del suo viaggio e la sua attuale posizione.

Ci si preparava a una disperata marcia, il suo equipaggio era ormai indebolito e in parte ammalato, e tutti pensavano che probabilmente sarebbero presto morti. Quando avvenne il primo decesso, McClure, depresso e di pessimo umore, stava cercando sulla riva  dell’isola, assieme a un altro ufficiale, un luogo ove seppellire il marinaio morto, quando vide una figura che di  corsa e con grandi gesti dal mare ghiacciato veniva loro incontro. Pensavano a qualcuno della nave inseguito da un orso: quando fu più vicino videro che aveva una faccia nera come l’ebano (era una crema antigelo, si seppe poi) e gridava selvaggiamente. Alla fine li raggiunse e affannato disse loro:

“Sono il luogotenente Pim della nave Resolute. Il capitano Kellett ha trovato il vostro messaggio e aspetta tutti voi per  salvarvi, vicino a Winter Bay!” Era il 1853.

Bisogna leggere le pagine del libro di McClure per avere un’idea delle cose straordinarie che avvennero a bordo dell’Investigator. Si pensava che nessuno, salvo loro, si trovasse in quel momento nell’Artide, e invece la salvezza era a portata di mano, con una nave riscaldata, ricca di cibo e piena di antiscorbutici! Anche i più gravi malati giravano eccitati gridando per la gioia; ed in pochi giorni tutti, chi a piedi chi in slitta, furono condotti sulla Resolute.

Questa nave faceva parte di una grande squadra di soccorso che nel 1852 l’Ammiragliato aveva inviato nell’Artide, fatta di cinque navi più alcuni trasporti e depositi. Purtroppo il comando era stato dato a Belcher, un inetto e un pauroso: se qualcosa  di utile riuscì,  fu per l’iniziativa di alcuni bravi comandanti, fra gli altri Mc Clintock che con l’introduzione di esplorazioni in slitta ampliò enormemente i  limiti che le navi potevano raggiungere, e Kellett che salvò l’equipaggio dell’Investigator, che fu così il primo a compiere il Passaggio di Nord Ovest, sia pure su più navi e con un tratto in slitta.

Comunque questa fu l’ultima delle spedizioni organizzate dall’Ammiragliato. Si  era spesa una enorme quantità di  denaro, si  erano perse alcune navi e degli uomini. Ma c’è di più: l’Inghilterra stava entrando nella guerra di Crimea con la Russia, la flotta inglese assediava Sebastopoli. meravigliosamente difesa da un abile generale tedesco,

e la carica dei seicento, una gloriosa vittoria ma amaramente pagata con la quasi completa distruzione della Brigata leggera, aveva messo in serie difficoltà gli inglesi a Balaclava. L’Ammiragliato si disinteressò definitivamente di Franklin, ormai giustamente considerato perduto con tutto il suo equipaggio.

Chi invece non si arrese mai fu Lady Franklin, disposta, persino contro il parere della figlia della prima moglie di Franklin, a spendere sino all’ultima delle sue sterline per sapere cosa era accaduto del marito, tanto più che proprio allora giunsero alcune sorprendenti notizie: l’americano dottor John Rae, che dal 1851 per conto della Compagnia della Baia di Hudson andava esplorando e mappando i confini artici del Canadà, nel 1853 incontrò degli eschimesi che gli narrarono come anni prima, sulla King William’s Land, avevano incontrato una quarantina di bianchi, diretti a sud, che trascinavano slitte e un’imbarcazione. Mesi più tardi, sul suolo continentale canadese, avevano trovato scheletri sotto i resti di tende o barche rovesciate. Gli eschimesi avevano raccolto alcune cose, telescopi, fucili, orologi, cucchiai e forchette d’argento, e persino una piccola placca con l’incisione “Sir John Franklin, K.C.B.”, che consegnarono a Rae.

Quando queste notizie raggiunsero Londra, la Hudson Bay Company fu incaricata di  cercare relitti in quelle zone. Nulla fu trovato, salvo vari altri articoli. acquistati dagli eschimesi, che non potevano provenire che dalla spedizione Franklin.

Lady Franklin allora, con tutto ciò che ancora possedeva affittò un piccolo battello a vapore, la Fox, di 177 tonnellate, e ne diede il comando a Leopold Mc Clintock, uno degli uomini che con le sue spedizioni in slitta tanto si era distinto nella sfortunata ultima spedizione dell’Ammiragliato, quella di Belcher. Partiti nel luglio 1857, con una stagione tremenda, la piccola nave restò prigioniera dei ghiacci nella Baia di Baffin per otto mesi, e alla tempesta che in primavera spezzò il ghiaccio corse il rischio di affondare, ma alla fine, libera, entrò nel Lancaster Sound. La Fox fu costretta a svernare in una baia dell’estremo orientale dello stretto di Barrow, ma di lì Mc Clintock inviò spedizioni in slitta in molteplici direzioni. La fortuna assistè la spedizione di Hobson, ufficiale in seconda della nave, che malgrado sofferente di scorbuto  non si arrese, e sulla costa nord ovest della King William’s Land trovò un cumulo di sassi, sotto il quale era nascosto un documento!

Il foglio era stato scritto in due epoche differenti. La prima parte, al centro, ben scritta, diceva: “28 maggio 1847. Le navi di S.M. Erebus e Terror svernarono nel ghiaccio in lat. 70° 05 Nord long. 98°23 W, dopo aver svernato nel 1845 – 46 a Beechey Island, lat. 74° 43’ 28” N. long. 91° 39’ 18”W, e dopo aver risalito il canale di Wellington sino alla lat. 77° ed essere tornati sul lato occidentale dell’isola Cornwallis. Sir John Franklin comandante della spedizione. Tutto bene. Il gruppo consistente  di  2 ufficiali e 6 uomini ha lasciato le navi lunedì 24 maggio 1847. G.M.Gore, luogotenente. Chas. F. Des Voeux, secondo ufficiale.”

Ma tutt’intorno, scritto alla meglio con un inchiostro appena scongelato, c’era un altro messaggio, ben più drammatico, che così può essere sintetizzato:”Nel 1848 le navi di S.M. Terror  e Erebus furono abbandonate il 22 aprile 5 leghe a N.N.W di questo punto, essendo rimaste prigioniere dei ghiacci dal 12 settembre 1846. Gli ufficiali e gli equipaggi, consistenti in 105 individui , sotto il comando del capitano F.M.R.Crozier approdarono qui in lat. 69° 37’ 47”N e long 98° 41’W, trovando questo foglio depositato dal fu comandante Gore nel giugno 1847. Sir John Franklin morì l’11 giugno 1847 e il totale delle perdite della spedizione è stato ad oggi di 9 ufficiali e 15 uomini. James Fitzjames capitano  della H.M.S. Erebus. F.R.M. Crozier capitano e ufficiale più anziano. E partenza domani 26 per il Fiume del Pesce di Back.”

Tutt’intorno, una infinità di coperte, tele, vestiti attrezzi, persino recipienti metallici di viveri che erano stati trovati putrefatti. Abbandonando tutto ciò che sembrava non essenziale, i superstiti si diressero a sud, in una marcia disperata, tentando di trascinare su slitte alcune pesanti imbarcazioni. Allora Hobson, benchè gravemente malato, cercò di seguire le loro tracce, finchè trovò un’imbarcazione, contenente due scheletri. Forse questo gruppo aveva deciso di tornare sulle navi, perché la prua era diretta a nord. Le condizioni di Hobson erano ormai divenute così gravi, che egli non potè proseguire più verso sud: dovette affrettarsi a tornare alla Fox e la raggiunse appena in tempo per essere curato e non morire. Ma era stata trovata, alla fine, una traccia di  come era andata la spedizione: dopo aver risalito e percorsa tutt’intorno l’isola Cornwallis e dopo un primo sverno, le due navi discesero, presumibilmente con mare libero, lungo la costa occidentale della penisola Boothia Felix. Giunti all’altezza dell’estremo nord della King William’s Land, in base all’erronea informazione che  questa fosse in continuità terrestre con il continente americano (il celebre errore di Sir James Ross) invece che prendere a est, ove avrebbero trovato il Passaggio, si diressero a ovest. E’ probabile che Crozier abbia tentato di persuadere Sir Franklin che non fosse il caso di  gettarsi tra ghiacci così pericolosi, ma in ogni caso non fu ascoltato e le due navi, ben presto immobilizzate e poi alla fine stritolate dai ghiacci, non poterono liberarsi. Era stupefacente apprendere che, alla decisione di lasciare le navi per tentare una quasi impossibile marcia, già un terzo degli ufficiali fossero  morti, tra cui Sir Franklin e il luogotenente Gore, che due anni prima era sembrato così pieno di vitalità da dargli il comando di una spedizione in slitta.

Negli anni seguenti molti altri esploratori trovaroni scheletri e relitti lungo la terribile odissea di marcia che i poveri uomini delle due navi tentarono. Tra l’altro, fu  dimostrato che a volte i poveretti, malati e affamati, ricorsero al cannibalismo, cibandosi dei compagni morti. Alcune persone inorridiscono di fronte a ciò, ma chi ha

letto il Naufragio dell’Essex (la narrazione che diede origine a Moby Dick) si è reso conto che in certe condizioni il fatto diviene inevitabile. Ciò accadde anche nell’aereo dell’Uruguay che nel 1972 dovette fare un tragico atterraggio d’emergenza sulle Ande: ci volle quasi un mese perché si riuscisse a localizzare il relitto e nel frattempo i superstiti sopravvissero solo perché si nutrirono dei compagni morti.

Grazie al cannibalismo, diversi superstiti della spedizione Franklin poterono raggiungere l’isola Montreal, non lontana dalla foce del Fiume del Pesce di Back. Ivi furono infatti trovati, decenni e decenni dopo, dei resti metallici corrosi (tra i quali uno dei recipienti metallici che avevano contenuto cibi, ma ormai usato come pentola) che non potevano derivare che dalla spedizione Franklin. Se veramente fossero riusciti a portare sino là delle barche, probabilmente avrebbero tentato di risalire il fiume, ma in pochi, indeboliti, malati, finirono per cadere subito vittime delle tremende rapide del Fiume del Pesce.

Tra gli eschimesi corse una leggenda: che l’ultimo superstite fosse stato Crozier, che sarebbe vissuto per un certo tempo tra gli indiani Chippewyans, cacciatori nomadi del nord. Non è che una leggenda riferita dagli eschimesi, ma se vera rapresenterebbe la giusta fine della vita di un uomo, che l’aveva vissuta sempre da nomade sulle navi tra i ghiacci.

 

La tragedia della spedizione Franklin per oltre un secolo fu analizzata e criticata, ma troppe cose rimasero senza spiegazione. Come mai, con tanta faciloneria, le due navi si erano fatte prendere da ghiacci pericolosissimi per il loro spessore e movimento all’altezza del culmine nord della King William’s Land? Un uomo dell’esperienza artica  come Crozier non avrebbe mai fatto questo errore e sarebbe  probabilmente tornato in Inghilterra. Ma egli non era il comandante della spedizione e dovette probabilmente chinarsi al volere di Sir John Franklin di correre ogni rischio pur di ottenere il successo che l’Ammiragliato e Lady Franklin si aspettavano da lui.

Da ciò che fu trovato abbandonato accanto al cumulo di sassi ove era stato deposto il documento che abbiamo letto fu potuto dedurre che grandissima parte dei viveri erano stati trovati putrefatti, e questo  spiega la malnutrizione. Ma alcuni fatti erano stupefacenti: già nel primo inverno erano morti tre uomini, e quando nell’aprile 1848 le navi furono abbandonate non solo erano già morti ventiquattro uomini, ma tra essi si annoverava un terzo degli ufficiali, una categoria in cui a bordo, in quei tempi, era assicurato un trattamento alimentare particolarmente scelto e abbondante. Il mistero della tragedia della spedizione restò oscuro nelle sue cause e solo ai nostri tempi una spiegazione è stata almeno in parte data.

Per chi volesse approfondire la questione, nell’ampia letteratura oggi esistente mi permetto raccomandare la lettura di due libri recenti, scritti in inglese. Il primo (O.Beattie & J. Geiger : Frozen in Time, A Plume Book, 1987-1990) è un libro essenzialmente tecnico e riguarda la moderne spedizioni e indagini cui dobbiamo l’attuale interpretazione della fine misteriosa della spedizione Franklin. Il secondo, che forse sarà presto tradotto in italiano (S.Cookman: Iceblink, J.Wiley & Sons, 2000)

è una appassionante disamina critica di tutta la spedizione anche alla luce di ciò che è stato recentemente scoperto dalle indagini del gruppo di O.Beattie.

L’idea delle speciali indagini di cui parleremo venne ad un archeologo canadese, Owen Beattie, assistent Professor dell’Università di Alberta: sappiamo che sin dal 1851 erano note le tombe di tre marinai di Franklin, morti nel primo sverno e sepolti nel permafrost, il terreno permeato  di acqua perennemente gelata. Presumibilmente, i tre cadaveri congelati dovevano essere nelle identiche condizioni in cui erano stati sepolti. Una moderna, estesa, indagine radiologica, autoptica, batteriologica e tossicologica avrebbe forse potuto fornire nuovi dati sul mistero delle morti della spedizione Franklin.

Beattie e la sua squadra dovettero superare enormi difficoltà, in parte burocratiche e in parte legate alla nazionalità, ma alla fine il permesso di esumare i tre marinai e procedere al loro studio fu concesso e fu persino presente agli esami un discendente di uno dei tre. Le spedizioni di Beattie e delle sue squadre tecniche furono molteplici: 1981, 1984, 1986. Da ognuna vennero interessanti risultati, ma soprattutto dalle ultime due.

Io sono stato molto incerto se proiettarvi o no le fotografie dei corpi esumati, perché è sempre odioso vedere come la morte sfigura il nostro aspetto, persino quando, come nei casi  che studiamo, non vi è stata alcuna decomposizione. Ma poi ho deciso di mostrarvele, data l’importanza dei dati emersi dalle indagini. Essenzialmente, le più importanti scoperte sono due, a parte il fatto che in questi primi tre morti non vi era traccia di scorbuto.

1°) in tutti e tre i corpi venne trovata una elevata quantità di piombo, assai maggiore di quella che in quell’epoca dimostravano gli inglesi usuali. Per di più, nella spedizione del 1981 Beattie aveva scoperto una parte di scheletro di un uomo della spedizione Franklin che nessuno aveva toccato dall’epoca della morte. Anche queste ossa erano ricche di piombo.

Per persone di quell’epoca questi alti valori di piombo erano del tutto unusuali (oggi, nelle società industrializzate, la quantità di piombo che ognuno di noi presenta è sui 200 mg, in gran parte assunto respirando i gas di scarico del traffico automobilistico).

Nell’800, solo i lavoratori del piombo, i saldatori, i preparatori di batterie, i fabbricanti di vernici, i pittori edili, presentavano valori anomali di questo minerale.

Da dove poteva  derivare l’intossicazione da piombo degli uomini di Franklin? Beattie nella zona, vicino alle tombe, ove era avvenuto il primo sverno di Franklin era riuscito a trovare i rottami di dieci dei recipienti metallici destinati a contenere i viveri: studiandoli attentamente, scoprì che la saldatura, con piombo, dei cilindri era non solo esterna, ma anche interna. I viveri pertanto si arricchivano di piombo! E il fatto che l’accumulo di piombo venisse constatato anche nei capelli e nella barba dimostrava che la contaminazione era avvenuta durante il viaggio e non nell’ambiente della precedente vita in Inghilterra.

L’intossicazione da piombo dà crampi, nausea, vomito, anoressia, disturbi intestinali. E’ ben nota l’anemia, dovuta al fatto che il piombo interferisce sino a formare il porfo bilinogeno dall’acido levulinico, con conseguente ostacolo a incorporare il Ferro nella protoporfirina IX. Al microscopio, le emazie presentano a volte una basofilia punctata.

Ma vi sono poi i sintomi nervosi: a parte i casi più gravi, nel secolo scorso veniva descritta, associata all’intossicazione da piombo, una serie di sottili danni cerebrali:  difficoltà mentale, labilità emotiva, disturbi dell’intelligenza e della memoria, condotta aberrante. Tutto ciò ha fatto pensare che il piombo abbia avuto un ruolo nel declino della energia psichica, aumentando il  senso di disperazione di fronte alla tragica situazione delle navi. Potrebbe aver avuto un impatto di particolare importanza in quegli uomini, gli ufficiali, che dovevano prendere decisioni.

A dimostrazione del ruolo del piombo nel prendere decisioni erronee, molti di voi che ascoltate hanno probabilmente sentito dire che alcuni storici ritengono che il piombo abbia potentemente contribuito alla caduta dell’Impero Romano: l’origine dell’intossicazione in quei tempi doveva risalire all’usanza di riscaldare il vino in recipienti di piombo, dopo aver aggiunto miele e talvolta come dolcificante acetato di piombo. E’ una teoria, basata più su un’intuizione che su fatti precisi, ma ha avuto recentemente un appoggio dalla scoperta (1950 – 60) che il 30 % degli scheletri trovati e dissepolti da archeologi americani fuori delle mura di Ercolano hanno ossa cariche di piombo.

2°) Le ricerche batteriologiche dimostrarono nell’intestino di uno dei tre marinai uno speciale microrganismo, il Clostridium Botulinum, ancora vitale, al punto che a tutt’oggi continua a svilupparsi nelle colture.

Come poteva essere avvenuto l’ingresso di questo germe nella vittima? La più probabile spiegazione era che fosse stato attraverso i viveri dei recipienti saldati. Dallo accurato studio che la squadra di Beattie fece dei recipienti recuperati dopo quasi un secolo e mezzo nel luogo del primo sverno di Franklin, era risultato che la saldatura in  piombo oltre tutto talvolta non raggiungeva completamente i due estremi alto e basso del cilindro, ove era saldata la chiusura. Questo significava la possibilità di un ingresso di  contaminanti batterici, virali, tossici, del più vario tipo. Ma quando Scott Cookman (fine del secolo appena scorso) volle indagare dai documenti di allora e dalle notizie avute dai rivali commerciali della Ditta Goldner, che l’Ammiragliato aveva preferito perché aveva i prezzi più bassi, come era avvenuta la preparazione e la sterilizzazione dei  cibi inscatolati, risultarono molti elementi della incredibile superficialità con cui tale Ditta aveva provveduto sia alla scelta delle carni e delle verdure, sia alla loro cottura a scopo di sterilizzazione. Tutto ciò si era accentuato gravemente nella frenetica preparazione del grosso dei viveri subito prima della partenza.

Questo spiega perché molte volte gli scatolami furono trovati putrefatti e in gran numero abbandonati all’inizio della marcia finale. E fa sospettare, dato il reperto del Clostridium, che tale microrganismo fosse presente in molti dei recipienti. Forse, per risparmiare carbone, questi cibi infetti talvolta vennero appena un poco riscaldati e così la tossina botulinica non si distrusse: questo potrebbe spiegare le molteplici morti avvenute nella spedizione sin dall’inizio, e sopra tutto la inesplicabile morte  di un gran numero di ufficiali. Tanto più che la conoscenza del botulismo e dei suoi sintomi era a quel tempo del tutto ignota: la malattia venne identificata solo negli ultimi decenni dell’800, senza comprenderne le cause (si pensava derivasse dall’ingestione di salsicce contaminate – botulus, in latino – da  cui il nome botulismo). Solo nel 1897

lo scienziato belga E. Van Ermengen scoprì la neuro tossina botulinica e isolò il Clostridium botulinicum.

Oggi sappiamo che la tossina botulinica – un peptide bicatenario di  circa 250.000 daltons – assorbita dall’intestino è portata dal sangue alle estremità del sistema nervoso  periferico ove si lega indissolubilmente alle giunzioni bloccando il rilascio di acetilcolina. L’insorgenza avviene dopo un tempo variabile, da uno a due – otto giorni (eccezionalmente talvolta dopo due – tre ore). Le forme a rapida insorgenza sono le più gravi. Il paziente avverte nausea,  vomito, crampi epigastrici. L’indomani comincia una flaccidità della muscolatura, inizialmente della faccia, a volte con una caratteristica diplopia. La visione è confusa, la bocca secca (compromissione del sistema nervoso autonomo), il p. diviene disfonico, disartrico, disfagico. In poche ore rapida estensione ai muscoli del collo, spalle, braccia, gambe, in una continua progressione discendente. Al terzo giorno il p. è più o meno paralizzato e con l’attacco ai muscoli respiratori si accentua l’incapacità a respirare, sino al soffocamento.

A parte l’antitossina specifica, che comunque agisce solo su quella parte della tossina botulinica non ancora legata alle giunture nervose, esiste una sola terapia efficace, la respirazione meccanicamente assistita con le odierne macchine. Ma nulla di tutto ciò esisteva in quei tempi.

 

In conclusione, come vedete, il mistero della scomparsa delle navi di Franklin presenta ancora molti aspetti non svelati. Dal documento trovato da Mc Clintock e Hobson e dai molteplici reperti di scheletri e relitti poi trovati lungo la costa della King William’s Land sappiamo con discreta approssimazione ove erano giunte le due navi e dove si svolse la tragica marcia finale, ma non sappiamo nulla di tutto ciò che avvenne a bordo e della causa di tanta, precoce mortalità. Per  Beattie e soprattutto per S.Cookman, la causa decisiva della tragedia fu il pessimo rifornimento di viveri, che causò almeno una dupice tossicità, da piombo e forse anche da botulismo (e Cookman sottolinea soprattutto quest’ultimo come fondamentale fenomeno tossico). Poi si può considerare l’errore fatto  da Barrow nello spingere troppo precocemente a percorrere il Passaggio di Nord Ovest, quando ancora troppe migliaia  di coste erano ancora del tutto sconosciute, e nell’affidare l’impresa a un uomo troppo vecchio e che in altre epoche aveva dimostrato di non aver sufficiente energia da tirarsi fuori da situazioni di pericolo. Infine, Barrow e l’Ammiragliato avevano avuto troppa fiducia nel presunto avanzamento tecnologico: avevano creduto nella macchina a vapore e nell’elica per forzare il passaggio e nelle provvigioni in scatole metalliche per tenere a bada scorbuto e malattie. Ambedue queste aspettative fallirono completamente. I marinai delle due navi erano i migliori che si potessero trovare: il fatto che questi uomini abbiano mostrato disciplina e coraggio in circostanze divenute così orribili e demoralizzanti, al punto di tentare una disperata marcia, testimonia della forza morale del marinaio.

Ma il Passaggio a Nord Ovest non riuscì: e fu soltanto nel 1906 che una piccola nave, la Gjoa di Amundsen, con un minuscolo equipaggio di sei persone, in tre anni di tempo, passò da est a ovest utilizzando il canale che divideva la King William’s Land dalla costa canadese. Poi, nel 1940 e di nuovo nel1944, un piccolo schooner a vapore della Polizia Canadese, il St. Roch, rifece il passaggio nelle due direzioni est ovest, impiegando ogni volta due anni. Infine, nel 1969, dopo la scoperta del petrolio nell’Alaska, la super petroliera Manhattan, di 150.000 tonnellate, tentò il trasporto del greggio estratto in Alaska nelle raffinerie della costa orientale. Aveva la prua rinforzata e trasformata come quella dei rompighiaccio, era guidata dai satelliti, dotata di elicotteri e accompagnata da due rompighiaccio, ma venne immobilizzata dal mare gelato malgrado tutte le sue dotazioni. I rompighiaccio riuscirono a liberarla e l’impresa riuscì, ma la nave subì tali danni da dover poi passare mesi in bacino per essere rimessa in ordine.

Da allora, l’idea del Passaggio a Nord Ovest fu abbandonata come possibile via pratica commerciale. Oggi, con il noto riscaldamento terrestre, il ghiaccio che blocca la via dell’arcipelago artico canadese è più sottile, forse, ma si riforma come prima nello stesso periodo dell’anno e in ottobre il mare è tutto gelato. Probabilmente quindi, soltanto in casi eccezionali si tenterà ancora il celebre Passaggio a Nord Ovest.