LAVORARE CON I GRUPPI

 

ELENA GELMINI

 

 

Il contributo che vi presento è lo spaccato di una realtà relazionale-gruppale di una scuola di periferia, le cui dinamiche disfunzionali/patologiche di gruppo hanno, a mio parere, non solo messo in evidenza le problematiche individuali di alcuni alunni ma anche alimentato un malessere relazionale tale da attivare difese di gruppo primitive altamente disgreganti.

 

Sono stata chiamata dal “consiglio di classe” della scuola media, dove operavo come psicologa, perché i docenti non riuscivano più a gestire una classe composta da 18 alunni: 6 femmine e 12 maschi, 6 dei quali stranieri provenienti da India, Marocco, Albania, Macedonia, Polonia. L’alunno identificato come problematico era un ragazzo albanese di 15 anni, ripetente, che reagiva in modo violento e brutale ogniqualvolta i compagni lo prendevano in giro. Più volte, infatti, alcuni di essi erano finiti al pronto soccorso e in conseguenza di ciò il Tribunale dei Minori lo aveva affidato ai servizi sociali del Comune. Inoltre, i genitori della classe avevano minacciato di non mandare più i figli a scuola finchè il dirigente non avesse punito in modo esemplare questo ragazzo.

Dopo accese discussioni, i docenti avevano accettato la mia proposta di inserire il ragazzo in una classe III media, più adatta a contenere e accogliere l’esperienza di un adolescente 15enne. Per la classe fu invece proposto un ciclo di incontri di “circle-time” a cadenza settimanale condotti dalla sottoscritta in compresenza dell’insegnante di lettere. Quest’ultima funzionava da “memoria di gruppo” da riproporre, dopo le necessarie elaborazioni con la sottoscritta, ai colleghi con l’obiettivo di attivare una riflessione comune per meglio comprendere i bisogni degli alunni e le dinamiche di gruppo.

Tale esperienza era finalizzata a migliorare, attraverso la riflessione gruppale, i rapporti interpersonali tra gli alunni rendendo ciascuno più consapevole dei propri e altrui sentimenti, più aperto al confronto e al rispetto della diversità individuale e culturale. I genitori furono messi al corrente di tali proposte dalla sottoscritta durante una animata assemblea da loro voluta per dar seguito alle loro proteste che in tal modo furono invece annullate.

 

“Al primo incontro entro in classe e trovo caos e confusione: ragazzi che si rincorrono, che si spingono, si cambiano di posto con cartelle che vengono sottratte con nervosismo, proteste, parolacce e minacce da parte del proprietario. Solo dopo più di dieci minuti l’insegnante riesce a ricomporre la classe e a zittire alcuni alunni che, ancora stizziti, urlano per chiedere silenzio. I ragazzi sembrano mostrare non soltanto le loro singole difficoltà relazionali, ma anche una estrema angoscia a costituirsi come gruppo; personalmente trovo molto difficile tollerare questa dimensione caotica, sento la confusione e il rumore come un attacco al pensiero e mi sento incapace, ma non insicura, mi rendo conto che devo “entrare” in  questa dimensione caotica per conoscerla e affrontarla.

A fatica l’insegnante mi presenta ed io spiego il motivo della mia presenza e gli obiettivi dell’esperienza di “circle time” proposta per loro. Lascio gli alunni ai loro posti, lasciando la disposizione a cerchio come conquista da raggiungere. Noto infatti che alcuni ragazzi tengono il banco stretto a sé, altri lo usano per isolarsi: di nascosto giocano con le figurine o leggono.

Inizio dando la parola ad ogni ragazzo affinchè si presenti e dica, se vuole, qualcosa di sé e anche del proprio paese per i ragazzi di nazionalità diversa. Ricomincia la confusione che s’acquieta solo quando propongo delle regole che sento necessarie per evitare che “l’onnipotenza delle singole aggressività cresca a dismisura con l’angoscia” (Baruzzi, 1990). D’altro canto, come sottolinea Privat, pensare presuppone la capacità di interiorizzare dei limiti che, se condivisi, contribuiscono alla creazione di un’area di simbolizzazione, senza la quale non è possibile alcun lavoro evolutivo (Privat,1996).

La regola da rispettare è: non interrompere, ma alzare la mano per poter intervenire; se mentre si sta parlando ci si accorge che gli altri non ascoltano e disturbano si interrompe il discorso rimanendo in silenzio finchè non sia tornata l’attenzione e il rispetto necessario per continuare. Si può dire qualsiasi cosa, ma è proibito fare del male e farsi male.

Nel presentarsi, la maggior parte dei ragazzi dice solo il proprio nome o sceglie aggettivi positivi per caratterizzare i compagni. Sono state necessarie più pause per ripristinare l’attenzione perché il gruppo si agita, alcuni provocano e ci sono continue accuse e insulti rispetto ai molti disturbatori. E’ ancora presente il ragazzo albanese che introduce il tema degli “accoppiamenti”. Ciascuno può contare sul forte legame affettivo che lo lega all’amico/a del cuore, legame che per la caratteristica di “esclusività” si contrappone fortemente alla cultura e al sentimento di appartenenenza al gruppo. Le continue interruzioni creano tensione, l’insegnante è molto in apprensione ed io fatico a credere possibile un cambiamento. La frustrazione fa ripiombare la classe nel caos e nella provocazione. A fatica riesco a salutare e pochi rispondono”.

In questo primo incontro si evidenzia una primitiva attività di gruppo fondata sull’assunto di base dell’attacco-fuga: l’ostilità iniziale sembra evidenziare la paura di ciascuno a gestire le proprie ansie e tensioni. La cooperazione diventa impossibile, l’agitazione e la confusione mostrano l’incapacità del gruppo di tollerare lo sviluppo (Bion, 1962).

L’aggressività esplode, le rivalse scatenano gli scontri fisici che accendono il clima in un crescendo di eccitazione, paura e angoscia. Il gruppo si difende e attiva il primitivo meccanismo della scissione per separare le parti non tollerabili di sé e proiettarle sul compagno “più disturbato”. Ma tale difesa impedisce l’elaborazione trasformativa dei contenuti dolorosi relativi alla percezione e gestione della propria aggressività. La distruzione e la minaccia si pongono come ostacoli al pensiero.

 

Al sesto incontro ritrovo il caos; è difficile ricomporre la classe, come se i contenuti emotivi di ciascuno, gli “elementi beta” di Bion senza un contenitore, agissero attraverso il conflitto con un movimento di continuo rinvio tra accuse, minacce e tentativi di aggressione violenta. Darkim piange e si contorce per una pedata ricevuta ai genitali da Abeb. Seguono minacce e volgarità contro il compagno. Riesco con fermezza a riportare la calma e a far raccontare l’accaduto a Darkim che subito riceve le scuse di Abeb responsabile dell’aggressione. Marco ha messo i piedi su una sedia e Giorgio con il suo piede in mezzo mima l’atto sessuale. Alcuni ridacchiano. Io li guardo dicendo loro che ho capito mentre l’insegnante nervosamente li invita alla compostezza. Tornata la calma, Larhie, camminando avanti e indietro in fondo all’aula, prende la parola ed elenca i problemi che, a suo parere, creano disagio e malessere alla classe: “Viene discriminato chi è straniero, chi ha un genitore che fa lavori umili e può arrivare a scuola con la tuta sporca da lavoro”. A questo punto Renato e Abeb allargano con le mani la loro bocca suscitando la reazione violenta di Darkim che deve essere fermato dall’insegnante. Darkim, adirato, urla che quel gesto volgare significa che per i compagni il padre si “diverte” prendendo in bocca il pene del cavallo; questa è per lui un’offesa intollerabile come la presa in giro per gli abiti sporchi indossati dal padre che lavora in una fattoria.

Larhie sottolinea che quello che è appena accaduto è frutto di discriminazione e prosegue: “Anche chi non veste firmato o non può farsi difendere da amici più grandi è discriminato”. Darkim, furioso, inizia a minacciare. A fatica riesco ad ottenere l’attenzione ma poi tutti zittiscono e ascoltano quando con autorevole fermezza ribadisco che il vero valore dell’individuo non sta né nel colore della pelle, né nei vestiti, né nei soldi che possiede, né dalla protezione di cui può disporre, ma unicamente dal suo essere persona, dalla sua unicità. Le volgarità rivolte ai genitori che eseguono lavori umili non intaccano minimamente la dignità della loro persona, ma evidenziano invece la situazione di fragilità e forse sofferenza interiore di chi fa uso di questa modalità offensiva. Darkim, ancora umiliato e offeso, minaccia tutti; Larhie gli ricorda di stare attento perché fuori dalla scuola le regole del rispetto non valgono più e prevale la violenza, e se continua di questo passo sarà pestato a sangue. Commento solo, ma con fermezza e convinzione, che i valori del rispetto non sono abiti che si indossano a seconda delle occasioni e li invito a riflettere su queste affermazioni. In un crescendo di rabbia molti denunciano le azioni intimidatorie messe in atto dai ragazzi della terza media che spesso picchiano e controllano i più deboli.

L’incontro è dominato inizialmente da emozioni aggressive celate nei comportamenti ambigui e provocatori. Solo quando Larhie riesce a dare nome alle forme di disagio presenti nella classe: razzismo, povertà, bullismo, derisione crudele, tali emozioni esplodono in istintualità primitiva. L’intervento pedagogico è stato necessario per porre un limite all’odio, alla collera, alla vendetta, per tutelare la fragilità emotiva di alcuni ragazzi e contenere altri rispetto al loro potere di fare del male. Mi sono resa conto che il problema della disciplina (processo sostenuto dalla gratificazione affettiva, dall’autostima e valorizzazione di sé) è secondario rispetto al problema dell’aggressività, che sembra qui derivare non solo da esperienze personali molto sofferte e non riconosciute, ma anche da tensioni emotive di varia natura. Tali tensioni sembrano derivare sia dal bisogno di “fare i conti” con immagini contradditorie di sé, sia dal desiderio di superare le differenze per affermare e difendere la propria nazionalità e identità etnica, sia dalla curiosità e difficoltà a gestire gli stimoli sessuali. La sessualità viene infatti caricata di contenuti spregevoli, fantasticata in modo perverso e omosessuale per difendersi forse dalla profonda insicurezza della propria identità. Rimane la tensione, il bisogno di sapere e di chiarire dentro di sé quanto c’è di buono e di cattivo negli impulsi sessuali che iniziano a provare ma che non sanno come gestire.

 

Si susseguono altri faticosissimi incontri, durante i quali il gruppo non riesce a creare un’area di pensiero perché troppe sono le differenze da riconoscere e rispettare, troppi i bisogni individuali da soddisfare e poche le difese integrative a disposizione degli adulti.
Gradatamente si arriva finalmente ad un incontro dove il gruppo riesce a contenere l’aggressività dei compagni più disturbati. I tentativi di provocazione o i fraintendimenti a livello comunicativo sono subito chiariti. Si affronta il problema dell’eccessivo peso delle cartelle e i ragazzi riescono a proporre diverse soluzioni che soddisfino i bisogni individuali. Criticano il comportamento aggressivo e autoritario di un professore che pretende la puntualità, pena l’espulsione dalla classe, che lui però non osserva. Poi la discussione degenera quando si affrontano tematiche relative ai premi e castighi utilizzati dagli insegnanti per disciplinarli, metodi che accettano solo se basati su criteri di giustizia uguale per tutti; faticano a differenziare attenuanti o aggravanti per valutare la responsabilità del comportamento individuale.

Questa volta il gruppo riesce ad assobire e contenere l’aggressività dei più fragili, inizia così a creare un tessuto di pensabilità che avvia i ragazzi alla comprensione e al riconoscimento di emozioni e sentimenti altrimenti negati o attaccati.

Il lavoro svolto in questa classe evidenzia in modo drammatico il bisogno della maggioranza dei membri del gruppo di trovare un contenitore in grado di bonificare l’intensità delle emozioni negative e distruttive. Non è stato facile né per il gruppo, né per me, né per l’insegnante gestire questa funzione contenitiva, accettare e vivere l’esperienza del disorientamento, del caos, della confusione, della paura, senza per questo smarrirsi nell’angoscia del non senso e della esasperazione. Resistere con pazienza e fermezza a questi attacchi violenti ha dato forza al sentimento della speranza e della fiducia e ciò ha rivitalizzato il gruppo e restituito senso al lavoro che stava facendo. Si è così riavviato quel processo evolutivo interrotto dalla sofferenza individuale e gruppale.

 

Ogni incontro è stato caratterizzato da sentimenti ed azioni aggressive dirette forse a stornare tensione e paura ma che si sono rivelate ostacoli alla ricerca della propria individualità e identità e al vivere con piena consapevolezza la dimensione sociale. Il gruppo ha mobilitato curiosità, emozioni e una forte aggressività. I tentativi di elaborarla alla fine di un faticosissimo percorso sono stati avviati e ciò ha offerto ai ragazzi la possibilità di esprimere più liberamente la crisi della loro età, parlando senza timori dei loro problemi. L’insegnante, con la quale mi sono settimanalmente confrontata dopo ogni incontro, ha potuto vedere, al di là dell’apparente aggressività del gruppo, un inizio di autocontrollo e coesione del gruppo stesso. Lei si sente cambiata: prima era spaventata e incapace di gestire la classe per la violenza che quotidianamente si scatenava tra i ragazzi, ora è più serena ed ha acquisito autorevolezza. Anche i professori e i genitori hanno notato che il gruppo iniziava a cambiare. L’alunno “disturbato”, una volta inserito in una classe III media, non ha più dato problemi di comportamento, ma il suo ruolo di capro espiatorio è stato assunto da un altro compagno anch’esso “disturbato”. Il lavoro di “circle time” si è però indirizzato verso la creazione di un contenitore gruppale e, spero, verso una elaborazione collettiva dei contenuti più gravosi grazie al pensiero di gruppo (Neri,1996). Il lavoro ha inoltre permesso di evidenziare le problematiche patologiche di alcuni ragazzi e di offrire loro un lavoro terapeutico riabilitativo.

 

Riporto ora lo stralcio di un “circle time “ attuato in una classe V elementare (21 alunni più un alunna con handicap) che ha usufruito per 3 anni di questo servizio migliorando notevolmente l’iniziale forte conflittualità.

….Giovanni prende la parola perché vuole discutere del fastidio che gli provoca Elisa per aver fatto la spia alla maestra; ora si ritrova con una nota da far firmare ai genitori. Ribadisce che non vuole discutere della nota, né del suo comportamento, ma esclusivamente di quello della compagna che “s’impiccia di cose che non le competono e dà fastidio a tutti!”. Elisa ammette di essere “impicciona”, ma ribatte che è comunque convinta di aver fatto bene; era giusto che lui ricevesse la nota come tutti gli altri. Interviene Giacomo chiedendo al compagno perché non ha lo stesso “fastidio” verso di lui visto che è stato il primo a smascherarlo di fronte all’insegnante. Giovanni ribatte che il comportamento della compagna è stata “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. Giacomo sottolinea che tutti e due hanno agito bene; Giovanni ha accusato Elisa solo perché gli è antipatica, infatti non tollera nulla del suo comportamento e la critica sempre. Giovanni insiste che l’antipatia è conseguente al comportamento della compagna. Tutti sono concordi con i due e mettono in minoranza il compagno. Intervengo per sottolineare che mi rendo conto che la “nota” dell’insegnante abbia provocato dolore e dispiacere. Questo sentire però si è tramutato in rabbia e accuse verso l’altro invece di aiutarli a riflettere sul loro comportamento.

Roberta ribatte che l’aver smascherato il compagno è stata una azione di aiuto del gruppo verso di lui, per evitargli di doversi confrontare con il terribile senso di colpa che provoca la bugia… “io ne so qualcosa!” (Roberta negli scorsi anni diceva molte bugie). Anche Vincenzo sostiene la stessa posizione aggiungendo che Giovanni deve condividere la punizione che riceveranno tutti per la nota: le botte dei genitori (Vincenzo è spesso picchiato dai genitori).

Intervengo per sottolineare che la nota dell’insegnante ha la solo funzione di aiutare il bambino ad attivare un maggior impegno e senso di responsabilità, per questo motivo viene notificata al genitore, non perché diventi causa di botte…….

Come si può notare, i bambini in questo incontro riescono ad  interagire, a confrontare il loro sentire, a riflettere. Si coalizzano con solidarietà sulla stessa condizione di puniti; rabbia e rivalsa diretti verso l’insegnante vengono proiettate sul compagno che ha tentato di spezzare tale solidarità. Il mio intervento ha però successivamente aiutato il gruppo a permettere di far emergere ed accogliere i conflitti emotivi di alcuni compagni.

 

FUGA DALLA SCUOLA

 

 

Presenterò ora l'esperienza di un gruppo docenti di una scuola elementare con un grado di conflittualità tale da produrre la fuga di molti di essi dalla scuola. Fuga scelta non per disaffezione, non per burn-out, ma per non soccombere ad un perverso rapporto che si era instaurato, negli anni, tra i docenti e che di fatto aveva impedito l'espressività e la creatività sia individuale che di gruppo. Il livello di aggressività e intimidazione di talune personalità docenti era negli anni diventato tale da appropriarsi del potere di gestire la dinamica e le decisioni di gruppo, sia della componente docente sia di quella dei genitori. Il clima relazionale della scuola, sarcasticamente definita "Bronx", era altamente conflittuale e deprimente. Di fatto non esisteva il gruppo, ma un alto numero di docenti che si coalizzava con il leader negativo di turno, contrapponendosi al sempre più esiguo gruppo docenti rimasto a negoziare con sofferenza il diritto a pensare diversamente da ciò che veniva imposto. La scelta del leader non sembrava determinata dalle necessità del gruppo di lavoro delle insegnanti, ma piuttosto dalle qualità che lo rendevano, secondo la teoria di Bion, “….capace di perdere la propria individualità, con scarse capacità di contatto con la realtà ed in grado di esprimere le richieste emotive dell’assunto di base dominante dell’attacco e fuga”. Le insegnanti più inibite e frustrate proiettavano sul leader negativo quell’aggressività repressa dall’inibizione, potenziando così di fatto il potere di attacco del leader. I tentativi per chiarire ciò che stava succedendo trovavano un serio ostacolo nel facile appoggio emotivo del gruppo verso tutte le proposte che impedivano di affrontare le difficoltà psicologiche e i mezzi per evitarle. Ogni riunione o collegio docenti lasciava fisicamente spossati e moralmente depressi, perchè solo i più aggressivi ottenevano ascolto e carpivano accondiscendenza. Riuscivano infatti ad impedire qualsiasi confronto o pensiero che potesse contenerli; mancava inoltre un dirigente autorevole che limitasse il potere smisurato dell'aggressività. La sofferenza individuale e di gruppo creava sbandamento e disaffezione verso il lavoro scolastico, con pesanti ricadute sui rapporti che il docente aveva con la propria classe e con il team insegnanti se questi ultimi erano della fazione opposta, altrimenti si rimuginava sulla violenza subita. Si era così creato un sistema ben organizzato di difesa incoscia che attivava l'agire e attaccava il pensiero, unica risorsa per elaborare la sofferenza che stava dietro a tanta ostilità patologica. La diversità di opinione era vissuta come attacco al proprio valore e alla propria persona ed era azzerata con le logiche perverse della colpevolizzazione e dell'umiliazione. Questa dinamica innescava poi a sua volta altra aggressità con ricerca di un colpevole su cui scaricare la propria rabbia o insoddisfazione. A questa sofferta dinamica emotiva di gruppo corrispondeva sul piano formale un'impegno professionale superficialmente soddisfacente ed espresso in modo burocratico che, ad un livello inconscio, era però il corrispettivo di una assenza-fuga che inevitabilmente si associava all'attacco.

Bion sostiene che nella dinamica di gruppo compaino tendenze emotive molto potenti che a volte favoriscono e a volte ostacolano gli individui nel raggiungimento degli obiettivi del gruppo di lavoro; la spiegazione di tali fenomeni deve essere cercata in ciò che Bion chiama “assunti di base” e che scopre essere di tre tipi: di dipendenza, di accoppiamento, di attacco e fuga.

Gli assunti di base sono quindi meccanismi di difesa del gruppo ed hanno la funzione di far sì che le ansie primitive messe in moto dal partecipare al gruppo non si manifestino come tali. Nel gruppo di lavoro è necessario che i membri ricerchino la cooperazione che attiva la consapevolezza della necessità sia di capire che di svilupparsi. Nei gruppi che si strutturano secondo un assunto di base non è invece necessaria la partecipazione volontaria, perché agisce una funzione spontanea e inconscia delle qualità sociali della personalità dell’uomo, denominata da Bion “valenza”. L'individualità del singolo non ha posto nella vita di un gruppo che agisce su assunti di base. Il gruppo di queste insegnanti agiva sull'assunto di base dell'attacco-fuga, impedendo maturazione e cambiamento perché tale assunto misconosce l’utilità del comprendere; tutti sembravano opporsi allo sviluppo che è inevitabilmente legato al comprendere; i sentimenti dominanti erano di ira, ansia, paura e rivalsa: quelli identificati da Bion come caratteristici del funzionamento degli assunti di base.

Questa esperienza è il caso estremo di una dinamica di gruppo patologica, definita da W.R. Bion "malattia" del gruppo.

 

 

Mentre la scuola media ha potuto usufruire di un intervento specialistico riparativo sugli aspetti patologici gruppali, e ciò ha determinato la ripresa dell’evoluzione del gruppo classe, nel gruppo docenti la patologia gruppale, lasciata a se stessa senza alcun intervento, ha prodotto la fuga e molto malessere. Queste vicende, benchè non generalizzabili, evidenziano l’esistenza di una sofferenza a carattere individuale, relazionale e gruppale che l’istituzione scuola dovrebbe prevenire con esperienze di gruppo appropriate per riattivare quel processo di pensiero e quindi sviluppo bloccato dal prevalere di quei fenomeni emotivi irrazionali che dominano i gruppi che si strutturano sugli assunti di base. Se pur è imprescindibile l’impegno verso la promozione del benessere psicologico del bambino, tale obiettivo dovrebbe essere esteso anche a tutta la realtà gruppale non solo discente ma anche docente qualora risultasse disfunzionale o patologica. Il problema che a questo punto sorge è: chi può intervenire per gestire queste problematiche gruppali?

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

Baruzzi A., 1990, “Il lavoro con i gruppi di bambini”, “Gruppo e funzione analitica” XI.

Bion W. R., 1971, Esperienze nei gruppi, Armando, Roma.

Bion W. R., 1962, Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma.

Francescato D., Putton A., 1986, Star bene a scuola, NIS

Foulkes S., 1964, Therapeutic Group Analysis, London.

Neri C., 1996, Gruppo, Borla, Roma.

Privat P., 1996, “Processo gruppale, processo di pensiero e interpretazione nei gruppi psicoterapeutici con bambini”, XVII, 2.