Percorso psicologico della coppia adottiva: difficoltà e risorse

 

Elena Gelmini      

Dirigente Psicologa I Livello ASL RM F  

 

Le riflessioni che vi presento sono il risultato del mio lavoro di psicologa nell’ambito della valutazione delle coppie adottive che chiedono l’idoneità al T.M. per realizzare il loro progetto di famiglia accogliendo un bambino abbandonato.

Nella Provinciia di Trento, dove ho lavorato per quattro anni, le coppie prima di presentare domanda di disponibilità adottiva frequentano un corso di preparazione di 2-3 giorni, durante il quale incontrano tutti gli operatori dei servizi, che in seguito le seguiranno nel percorso pre-post adottivo, per riflettere sul significato e motivazione della scelta adottiva e attivare un’autovalutazione per riconoscere i propri limiti e valutare le proprie risorse e reali disponibilità (Guidi e Sessa, 1996) verso un bambino abbandonato ed offrirgli un valido ambiente familiare in cui crescere (Moro, 2000).

Alcune coppie dopo questa esperienza di approfondimento interrompono il percorso che non sentono più desiderabile, altre lo interrompono solo dopo aver ottenuto l’idoneità ed essere state così rassicurate rispetto alla loro capacità genitoriale. La rassicurazione, in questi casi, sembra aver slatentizzato processi incosci inibitori come la: “mancata autorizzazione a diventare genitori da parte dei propri genitori interni” (Luzzatto, 2002) e la coppia recupera la sua capacità procreativa (nella mia esperienza 8 coppie, su 100 valutate, hanno recuperato la capacità procreativa dopo il percorso valutativo). Quelle che continuano il percorso arrivano ai servizi più disponibili ad accettare l’indagine di valutazione psico-sociale per verificare le loro capacità genitoriali, rispetto a quelle non preparate che vivono invece tale indagine come un’ingiustificata intrusione dei servizi nella loro sfera privata; faticano a capire perché, diversamente da loro, le coppie che hanno figli naturali non subiscono lo stesso trattamento. Questo atteggiamento è un elemento critico perché indica come queste coppie non abbiano ancora consapevolizzato quanto sia diverso, rischioso e impegnativo il percorso della genitorialità adottiva rispetto a quella biologica.

Se infatti in una gravidanza è il corpo della madre che si trasforma per dare spazio alla crescita di una nuova vita, nella gravidanza adottiva lo spazio da creare è mentale, costituito principalmente da un coinvolgimento relazionale emotivo e affettivo (Galli, 2001), cioè da un’esperienza psichica (Morral Colajanni, 1992) che dal bisogno deve transitare al desiderio del figlio.

Perché, se una coppia "desidera" un figlio adottivo, significa che potrà essere un buon contenitore per le sue angosce traumatiche e i suoi bisogni e la relazione si costituirà come dono gratuito e disinteressato per creare un legame d’amore che sa oltrepassare i confini generazionali, accogliere il diverso, l’estraneo per iniziare una storia famigliare comune (Bramanti, 1998). In questo modo si accetta il figlio per quello che è e gli si consente di diventare "altro" e di differenziarsi dal nucleo che lo ha accudito.

La maggior parte delle coppie arriva però all’adozione dopo la dolorosa scoperta della propria sterilità, intesa come definitiva impossibilità a concepire, o infertilità, definita come incapacità a portare a termine la gravidanza; dunque spinta da un bisogno. Durante i colloqui si evidenziano i vissuti non ancora elaborati di delusione, frustrazione, senso di fallimento e colpa profonda di tali coppie per la mancata fertilità e per la grave ferita narcisistica inferta al loro sé, rintracciabili nelle narrazioni che dissimulano sofferenze depressive non risolte ed equilibri di coppia precari. La sterilità è vissuta come condizione di inferiorità, di svalutazione e di vergogna sociale. Per elaborare questo lutto generativo la coppia ha bisogno di contare su risorse cognitive ed emotive individuali e sugli aspetti libidici della relazione di coppia. Ricordo una coppia che era arrivata all’adozione dopo un lungo percorso di elaborazione del lutto seguito alla morte del feto al terzo mese di gravidanza e alla sterilità di lei, in conseguenza di un grave incidente stradale subito per la guida in stato di ebbrezza di un folle individuo. Dopo l’iniziale sentimento di disperazione per la morte del figlio, lei si è trovata a confrontarsi prima con sentimenti di rabbia intensa verso tutti, per la sorte maligna che l’aveva colpita, poi di isolamento e colpa, fino ad un dolore depressivo profondo con difese fobiche che non le permettevano né di guardare le donne incinte né di avvicinarsi ai neonati. La solidità delle coppia, la fede, l’aiuto del marito e della terapia le hanno permesso di attraversare questa esperienza dolorosa e approdare gradatamente alla risoluzione del lutto, recuperando stima di sé e ridefinendo in termini più autentici la propria identità personale e relazionale nel progetto adottivo di coppia. Il processo di elaborazione del lutto dunque permette di interiorizzare la persona perduta rendendola oggetto di memoria, e generalmente "è indice di maturità affettiva e di una personalità integrata" (Ferraro, 1992).

Elementi di criticità si evidenziano anche con le coppie che, contemporaneamente al percorso adottivo e segretamente, continuano i tentativi di fecondazione assistita o il progetto procreativo. Il figlio adottivo diventa il “ripiego” per fallimenti biologici insostenibili.

Elementi di criticità si individuano nelle coppie che arrivano all’adozione con reiterati tentativi di fecondazione assistita falliti alle spalle, con storie drammatiche, soprattutto quando la sfida è di superare ad ogni costo il limite biologico. Percorsi affrontati senza alcun sostegno psicologico, con bombardamenti ormonali, aborti spontanei ripetuti, rapporti sessuali stravolti nella loro naturalità ed espressione affettiva dell’amore per il l’imperativo imposto dalla scienza medica; senza considerare che queste esperienze  comportano alti rischi sulla tenuta della coppia per le difese patologiche che si attivano se non c’è elaborazione. Qui si inserisce l’esperienza dell’accanimento fecondativo. I medici spesso colludono con il desiderio di onnipotenza della coppia e la incoraggiano a non accettare quel limite a cui successivamente loro stessi, nonostante la loro azione terapeutica, devono piegarsi quando il corpo materno comunque non riesce a portare a termine la gravidanza; spesso per consolare la coppia sono i medici stessi a consigliare l’adozione: sminuiscono così il percorso adottivo inficiando il processo della scelta consapevole.

Il lavoro di diventare genitori risulta molto difficile per queste coppie per la coartazione affettiva che per anni ha fatto da scudo alla loro vulnerabilità psichica di fronte all’incapacità di procreare.

Alcune coppie invece preferiscono ignorare la causa della problematica per non cadere nella tentazione di colpevolizzarsi a vicenda; altre coppie arrivano all’adozione perché il partner si sente incapace di pensarsi come genitore biologico, ma è desideroso di realizzarsi come genitore adottivo; altre per soddisfare il desiderio di maternità/paternità del partner infertile quando l’altro ha già un figlio/i da un precedente matrimonio; per altre ancora, la richiesta di adozione avviene dopo una morte prematura o malattia del proprio figlio biologico. Altre, per non trasmettere al proprio figlio la malattia di cui un partner è portatore. Altre ancora maturano un desiderio onnipotente di adozione senza limiti (richiesta di adottare sette fratelli) o con l’acritica accettazione di ogni proposta e problema senza manifestare dubbi o preferenze; all’estremo opposto ci sono le coppie che desiderano solo un bambino neonato con l’illusione di destorificarlo e aver una maggior facilità nell’assimilarlo alla cultura e regole della loro famiglia. Si possono considerare a rischio inoltre le coppie con gravi forme depressive o con presenza di importanti patologie fisiche e mentali. Queste situazioni portano inconsapevolmente la coppia all’uso e abuso del bambino e, se non intervengono fattori protettivi, rischiano di evolvere in fallimenti adottivi. L’indagine psico-sociale ha l’obiettivo quindi di consapevolizzare la coppia sulla risorsa ma anche sul rischio della sfida adottiva per prevenire, per quanto possibile, situazioni fallimentari.

 

Il bambino adottivo ha bisogno di trovare nella famiglia adottiva una stabilità compensatrice per ridare alla sua esistenza speranza e significato, e soprattutto per vedersi restituito il diritto di appartenere ad “un padre e una madre”, senza i quali l'identità, la costruzione del Sé e più in generale lo sviluppo psichico, non avrebbero nutrimento sufficiente per crescere adeguatamente.

Per questo è importante che i genitori adottivi non presentino squilibri tali da compromettere la formazione di un attaccamento sicuro e stabile nel bambino. Per questo motivo si sonda con la coppia la relazione con la rispettiva famiglia di origine. Il racconto della propria storia con le figure genitoriali, permette di far emergere le esperienze infantili di attaccamento. Come strumento di indagine si utilizza l’A.A.I. che è un’intervista strutturata interamente attorno al tema dell’attaccamento con la madre e con il padre durante l’infanzia. La cornice teorica di riferimento è la teoria dell’attaccamento di Bowlby. Concetto centrale della teoria è quello di Modello Operativo Interno, che è la matrice relazionale interiorizzata che si è strutturata con le esperienze interattive e affettive del bambino con i propri caregiver. Numerosi studi trasgenerazionali (Fraiberg, Adelson e Shapiro, 1975; van Ijzendoorn, 1995) hanno mostrato una consistente associazione tra qualità dell’attaccamento del bambino e tipo di modello operativo interno della figura di attaccamento. Il fattore chiave nella trasmissione transgenerazionale sembra essere rappresentato, secondo Bowbly, dalla sensibilità materna, intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni del bambino. Alla base dell’ipotesi della funzione protettiva e, io aggiungo, riparativa dei legami di attaccamento che si strutturano all’interno di relazioni stabili e significative, l’esperienza adottiva potrebbe quindi costituire per il bambino abbandonato la possibilità di sperimentare un ambiente affettivo adeguato, stabile e capace di funzionare da “base sicura”. Questo ambiente affettivamente sicuro può permettergli di rielaborare le precoci rappresentazioni dell’attaccamento caratterizzate da insicurezza e disorganizzazione a causa delle pregresse esperienze di trascuratezza o abuso, trasformandole in modelli sicuri.

 

Alla nascita, il bambino è fornito di un corpo e di un apparato psichico troppo immaturi e vulnerabili per sopravvivere senza le cure adeguate della madre. Una prima drammatica "interruzione della continuità dell'essere" (Winnicott, 1988) avviene con il parto per la brusca perdita dei riferimenti intrauterini e, solo con il contatto con la madre, il neonato ritrova quegli elementi già conosciuti che gli permettono di avere una continuità dell’esperienza del sé tra il prima e il dopo (Colajanni, Spano, 1985). In questa fase, in cui non si è ancora realizzata un'unità psicosomatica, l'accudimento materno funziona da reverie e dà avvio alla capacità di pensare del bambino, mentre la "funzione di specchio" della madre diventa indispensabile per definire se stesso e darsi un valore (Winnicott, 1988).

La successiva esperienza della differenziazione tra sé e l’oggetto espone il bambino ad angosce di separazione più o meno tollerabili (Ferraro, 1992), ma sperimentando la continuità e attendibilità delle cure materne il bambino inizia a costruire un sentimento di fiducia verso chi si occupa di lui. Dalla qualità della relazione con la madre, che rappresenta la sua prima relazione oggettuale, il bambino avvia la costruzione del suo Sé, nucleo primordiale della sua individualità e unicità. Il bambino inizia così a tollerare le separazioni perché protetto dal sentimento di fiducia verso chi lo ama.

Ma cosa succede con l’abbandono? Il bambino subisce un trauma indelebile per l’interruzione della continuità del sé, per la perdita della madre che si traduce in una perdita di sé che investe la psiche e il corpo a diversi livelli (Ferraro, 1992). Alla deprivazione fisica, si associa anche una mancanza di contenimento emotivo e il bambino attiva massicce difese psicosomatiche (dondolii, alterazioni ritmi del sonno, problematiche alimentari, ecc.) volte ad evitare che l'incipiente sé soffochi sotto la forza delle angosce persecutorie e depressive (Ferraro, 1992) a spese dei processi integrativi di importanti parti del sé, che rimane in questo modo frammentato.

Nel corso della crescita, se non interviene un sostituto materno disposto a farsi carico di questo dolore psichico, possono emergere nel comportamento di questi bambini dei tratti psicotici o autistici. Ricordo il terrificante racconto di una coppia adottiva in difficoltà per i gravi problemi comportamentali del suo bambino russo con una storia pregressa di abbandono, lasciato solo per giorni a vagare in un parco all’età di tre anni. Ritrovato e inserito in un orfanotrofio, il bambino aveva smesso di parlare e di nutrirsi. Questa grave regressione ha favorito l’adozione. Inizialmente la presenza dei genitori adottivi ha permesso al bambino di riattivare la sua evoluzione. Durante il primo periodo di vita in comune i genitori ingenuamente avevano sottovaluto le difficoltà e lo stress associati a questa fase, e si erano illusi che l'immediata corresponsione del bambino al loro affetto fosse autentica; ma ben presto sono iniziati comportamenti aggressivi, violenti, distruttivi apparentemente incomprensibili, durante i quali il bambino era inavvicinabile e che hanno gettato i genitori nel totale sconforto.

È come se improvvisamente questo bambino fosse entrato in contatto con un dolore intollerabile, incontenibile, che lo ha portato a rifiutare la relazione e a distruggere tutto, chiudendosi poi in un mutismo ostile. Forse la sua esperienza drammatica di abbandono e deprivazione, con cure materne adeguate ha potuto emergere senza controllo, insieme ad un esasperato e troppo intenso desiderio di rapporto affettivo; desiderio che tanto più è intenso e carico di aspettative, tanto più è pericoloso, perché se non viene arginato, rischia di straripare in una caos di bisogni mai espressi (Vitolo, 1995). Così in una prolungata alternanza tra momenti di sfida e aggressività, spesso immotivata, e momenti di dipendenza e bisogno affettivo esasperato, è iniziato il lungo e laborioso lavoro del lutto. La collera, che in un lutto sano viene diretta verso la persona perduta (Bowlby, 1980), nel bambino era rimasta imprigionata nel suo Sé, andando a distruggere e a popolare il suo  mondo interno di oggetti rotti, scissi (Fabbrici, 2001). La rappresentazione della persona scomparsa non poteva rendersi disponibile al ricordo, perché oggetto fuori del tempo e dello spazio (Ferraro, 1992). Quando il bambino rompe tutto, ha paura ed è assalito dall'angoscia di rimanere solo in un mondo distrutto e senza amore. Se, nonostante la sua furia, i genitori riescono a non spaventarsi e a resistere ai suoi attacchi, il bambino vivrà l'esperienza di una relazione nuova, capace di accogliere e di trasformare i frammenti emotivi caotici e disgreganti in emozioni più tollerabili e di riconoscere nell’elaborazione e ricostruzione di una verità narrabile, il dolore della perdita. L'adozione anche se precoce si configura sempre per il bambino come un momento particolarmente critico per la sua identità, perché interrompe la continuità del suo essere, perché comporta la perdita di tutti quei riferimenti esperenziali che lo avevano aiutato a definire se stesso e gli altri in un mondo conosciuto. Con l’adozione si ritrova sradicato dalla comunità sociale a cui apparteneva, lontano da quelle abitudini e da quei legami che, seppur discontinui e disfunzionali, gli avevano comunque assicurato una minima approvazione (Dell'Antonio, 2000). Superato il primo periodo dell’inserimento, da molti genitori vissuto come “luna di miele”, iniziano i problemi di conoscenza reciproca e spesso il bambino vive un’ansia di estraneità disorientante che lo spinge a tentativi spesso impropri di ridefinire il proprio sé. Ed ecco apparire comportamenti, anche negativi, che gli garantiscono però una sorta di sollievo e di affermazione della propria identità (Dell'Antonio, 1986). Sono frequenti i riferimenti alla propria origine; il bambino inventa un romanzo famigliare in cui idealizza i legami che ha avuto con i suoi genitori, magari narrandoli come avrebbe desiderato che fossero. Ricordo un padre arrivato in consultazione per i problemi di sonno del figlio. Dalla storia che mi racconta emerge che lui è stato adottato all’età di 9 mesi e che anche lui ha avuto disturbi del sonno durante tutta la sua infanzia. Affiora la figura di una madre adottiva irosa e instabile che mal sopportava le incongruenze del figlio, i suoi lamenti e la sua difficoltà ad addormentarsi. Così tutte le sere per interrompere l’angoscia terrificante che la madre: ”…venisse a farmi male, piangevo, lei mi picchiava per zittirmi e così io potevo finalmente liberarmi di quel terrore e addormentarmi”. Racconta che aveva sempre vissuto l’abbandono in modo idealizzato, perché pensava alla madre, morta per partorirlo “… come un angelo che vegliava su di me e ciò mi dava una forza incredibile per andare avanti…”. Questo sogno si è infranto quando la madre adottiva, adirata con lui per un diverbio, gli ha tirato fuori i documenti dell’adozione invitandolo ad andarsene. Questa rivelazione lo ha sconvolto: non era pronto ad aver una madre biologica vivente. Dopo il primo periodo di smarrimento ha iniziato a desiderare ardentemente di incontrarla pur essendo adirato con lei perché non lo aveva mai cercato….., dopo un lungo lavoro di elaborazione terapeutica è giunto preparato a quell’incontro che tanto desiderava, ma anche consapevole della possibilità di un ulteriore rifiuto materno.

Dalle molte storie di abbandono si evidenzia che i bambini che hanno subito perdita o abuso e trascuratezza del loro “caregiver”  hanno rappresentazioni conflittuali soprattutto se hanno vissuto la contraddittorietà dei comportamenti a volte amorevoli a volte abusanti dell’adulto. Queste diverse rappresentazioni secondo Bowlby (1980) formano modelli multipli nella mente del bambino di due diversi tipi. Il primo è il modello basato su comportamenti contradditori dello stesso caregiver, il secondo può derivare dalla frequente esperienza di caregiver molteplici. Uno dei possibili costi che pagano questi bambini è l’ipervigilanza, quando non sono adeguatamente e amorevolmente contenuti e accuditi dall’adulto. Ma la disponibilità dell’adulto ad impegnarsi nell’accudimento del bambino diventa critica se questi ha traumi o lutti irrisolti. Infatti i bambini adottivi che hanno alle spalle storie di abusi e violenze e interruzioni dei legami affettivi si presentano molto vulnerabili. Questa vulnerabilità quando incontra l’intrinseca vulnerabilità del genitore irrisolto, incrementa la problematicità di entrambi. Alcuni di questi bambini hanno una forte tendenza ad essere provocatori o a comportarsi negativamente o in modo vendicativo. Questo atteggiamento acquista senso se lo si considera nel contesto delle rappresentazioni delle precedenti figure di attaccamento che il bambino si è costruito e se si tiene inoltre presente che le rappresentazioni guidano le aspettative del bambino rispetto alla futura interazione di attaccamento. Questo comportamento può anche essere descritto nell’ambito del quadro teorico di Anna Freud (1965) in termini di meccanismi di difesa, quali il bisogno di “trasformare il passivo in attivo” e “l’identificazione con l’aggressore”.

 

 

Il maggior numero di fallimenti dell’adozione si registra soprattutto in corrispondenza dell'entrata del figlio in adolescenza (Galli e Viero, 2001) con due possibili evoluzioni: una relativa alla trasformazione del disagio in psicopatologia (sviluppo di depressioni, disturbi di personalità, ecc.), l'altra in vera e propria devianza. L’adolescente adottato, nella ridefinizione della propria identità (propria dell’adolescenza), ha bisogno di ritrovare la traccia iniziale della sua vita: la sua storia e le sue origini, per affrontare ed elaborare quel dolore permanente dell’interruzione della continuità del proprio sè, subìta per l’abbandono. Altro difficile compito dell’adolescente è integrare nella ricostruita ridefinizione del sé la difficile realtà della doppia appartenenza (Cigoli, 1998).

Ricordo una adolescente indiana di 17 anni, adottata all’età di 5 anni, inviata in consultazione dal T.M. perché allontanata dalla famiglia adottiva per un clima famigliare di intollerabile violenza e conflittualità. Per i genitori era “immorale e seduttiva” e aveva praticato un IVG che loro, in modo ambivalente, avevano sconsigliato ma nello stesso tempo subdolamente preteso dalla figlia, perché altrimenti sarebbe stata senza il loro supporto economico. Alla mia domanda quale fosse il suo più grande desiderio mi ha risposto: ”il mio unico desiderio è di diventare bianca”. Questa risposta ha il peso insopportabile di un passato negato e scisso, perché carico solo di aspetti negativi che hanno impedito a questa adolescente una costruzione autentica dell'immagine di sé e della sua identità etnica (Dell'Antonio, 1986). L'identità razziale dipende in primo luogo dall'accettazione profonda da parte dei genitori adottivi della diversità fisica del figlio adottato. Determinati comportamenti, come menzogne, furti e repentini allontanamenti da casa, mettono in scena il tema di questa doppia appartenenza che non riesce a radicarsi in nessuna delle due direzioni, e "che rischia di produrre una scissione tale da precludere un sano sviluppo" (Guidi, Tosi, 1996).

L'adolescente ha quindi bisogno di ricercare le proprie origini, di lavorare su di sé e sulla sua storia, perché senza radici psicologiche non è possibile né appartenere né definirsi nella propria unicità e poter così uscire dalla incompiutezza (Lanza, 1985) e diventare adulto.