Accademia Lancisiana

SIMPOSIO SU PATOLOGIA IATROGENA

ROMA –  30 gennaio 2007

 

                   Prescrivere gli psicofarmaci

                                            Mario GIAMPÀ

 

 

Il concetto di malattia, apparentemente intuitivo, pone in realtà problemi di definizione. Alcuni ritengono che non valga neanche la pena di impegnarsi troppo in questo senso, ammettendo in partenza un criterio pragmatico e relativistico (malattia sarebbe ciò che, in un dato contesto socio-culturale, è ritenuto passibile e meritevole di cure) (…)

a)malattia come qualcosa di estraneo che penetra nell’organismo, entità autonoma distinta dall’organismo che colpisce (concezione “ontologica”); b)malattia come alterato equilibrio; c)malattia come reazione ad eventi perturbanti (reazione dell’organismo a un equilibrio alterato).

                      Dal TRATTATO ITALIANO DI PSICHIATRIA, vol. 1°, pagg. 93, 1999.

 

Attualmente l’elencazione standardizzata dei sintomi finalizzata alla diagnosi ci garantisce dal soggettivismo, ma ci fa smarrire il soggetto umano.

                                                              L. Canova, V. Scarlato, 2001

 

Il disturbo mentale è per sua natura difficilmente localizzabile, a volte impossibile da definire, sostanzialmente perché spesso non è contraddistinto dal “dolore” puro, così come noi lo conosciamo fin dalla nascita, ma da sensazioni (certo, anche dolorose) più sfumate, nuove, o da comportamenti apparentemente incomprensibili e difficili da classificare. Su tutto ciò inoltre grava un pregiudizio ancora estremamente radicato, che rende il disturbo mentale una sorte di tabù, qualcosa di cui non si può parlare, da nascondere anche ai propri familiari, qualcosa da condividere solo con persone di cui ci si fida in modo particolare.

                                                                                        Federico Della Rocca, 2006

 

Nella esposizione del mio pensiero sulla patologia da farmaci ho presente il concetto di salute non più come “assenza di malattia”, ma come possibilità di raggiungere un benessere “biologico, psicologico e sociale”

Lo psicofarmaco ideale dovrebbe agire sul biologico, sullo psicologico e sul sociale!

Sulla utilità dello psicofarmaco e sul suo limite c’è un dibattito da sempre tra psichiatri biologi (psicofarmacologi) e psichiatri psicodinamici e sociali.

Le stime dell’O. M. S. parlano di un 25% della popolazione mondiale che in un determinato periodo della vita abbia sviluppato disturbi mentali o comportamentali. I suicidi si aggirano intorno agli 800.000 all’anno.

Il disturbo d’ansia generalizzato si aggira tra il 4 e il 6% della popolazione generale e sembra che la venlaxina e il buspirone si sono dimostrati efficaci.

Nel mondo gli schizofrenici sono circa 24 milioni e i depressi 121 milioni.

Per quanto sopra detto, prescrivere psicofarmaci presenta per lo psichiatra delle difficoltà sia oggettive che soggettive.

Difficoltà soggettive: Lo psichiatra, oltre a fare una diagnosi più o meno esatta, deve “sentire” l’altro, percepire le sue emozioni ed il suo rapporto con la realtà comune. Solo in questo modo può individuare quegli strumenti operativi che consentano, a quella persona, per quanto “difettuale” sia il suo quadro clinico, di subirne i minori danni possibili, provando, secondo possibilità e competenze, a migliorare la sua qualità di vita (F. Perozziello, 2006).

Il primo effetto iatrogeno di uno psicofarmaco è dovuto alla mancata empatia dello psichiatra e ad un accoglimento respingente da parte dello psichiatra e del contesto ambientale nel quale opera.

Oggi la farmacoterapia psichiatrica ha messo a punto una nuova classificazione per la clinica: non più la classificazione in antipsicotici, antidepressivi, antiansia e stabilizzatori dell’umore, ma farmaci che agiscono su gruppi sindromici che hanno un fattore patogenetico comune come lo spettro dissociativo o depressivo o ossessivo-compulsivo o schizofrenico.

Per esempio, per il gruppo sindromico bipolare o <spettro bipolare>, caratterizzato da una combinazione complessa di disturbi dell’umore, d’ansia e del controllo degli impulsi, si suppone che l’instabilità temperamentale di tipo ciclotimico rappresenti il fattore comune sottostante. Basandosi su questa formulazione, è possibile delineare una prospettiva di natura patogenetica e sostenere l’idea che anche alcuni disturbi della condotta alimentare, soprattutto quelli che implicano comportamenti impulsivi quali abbuffate e condotte eliminatorie, possano appartenere a questo spettro sindromico allargato al pari di alcuni disturbi da uso di sostanze (G. Pertugi, 2005).

Come sostiene L. Bellodi (2005), in psicopatologia dobbiamo abbandonare il riduzionismo scientifico e della matematica lineare per inoltrarsi nella dimensione della complessità, del caos e quindi della matematica non lineare.

Oggi si tiene conto, nell’ambito di una terapia integrata che colui che chiede aiuto ad uno psichiatra, il cosiddetto paziente, è per definizione “in metamorfosi”, portatore di contenuti mentali per lo più dolorosi cui non riesce a dare forma. Sempre in bilico tra rimanere staticamente senza forma e riuscire finalmente ad acquisire nuove forme, nuovi modi di essere e di sentire.

E si presentano le difficoltà soggettive: gli psichiatri insieme agli operatori che li affiancano, sono sempre in sofferto contatto con le emozioni dei pazienti, con la loro lotta per dare forma ad emozioni spente o informi, e spesso con l’impotenza a trovare, per le emozioni, sbocchi e forme. (…) ecco che solo lo psichiatra può detenere non solo per scienza ma anche per esperienza e perizia un sapere professionale che sia capace di evolvere costantemente e di mutare al meglio, riuscendo in questo modo a indurre nei pazienti metamorfosi positive e intense in luogo di quelle statiche e stagnanti, e riuscendo però anche ad indurle nei curanti, perché questi devono a loro volta sempre evolvere, non solo sul piano lavorativo ma umano e personale. (M. Di Giannantonio e M. Alessandrini, 2006).

Lo psichiatra oltre a tenere conto delle acquisizioni delle neuroscienze deve valutare quale farmaco sia migliore per quel paziente nel suo contesto familiare e lavorativo, la prevenzione nel lungo periodo, la qualità della vita e l’integrazione con altri interventi (A. C. Altamura, 2005).

Ormai per gli psichiatri è il soggetto al centro del piano terapeutico e non il farmaco in quanto, come sostiene G. Biggio (2005), numerose ricerche nell’ambito della neuropsicofarmacologia suggeriscono che la suscettibilità di un individuo a sviluppare patologie della sfera emozionale e affettiva sono strettamente associate ai meccanismi e cambiamenti strutturali che avvengono nel cervello durante lo sviluppo pre e post-natale.

Si comprende, allora, quando P. Pancheri sostiene che l’ universo sociale in trasformazione provoca, un cambiamento della psicopatologia, con il proliferare delle categorie sindromiche nelle classificazioni psichiatriche attuali (DSM, ICD) che ha reso sempre più difficile stabilire un rapporto biunivoco tra diagnosi e terapia.

A complicare il lavoro dello psichiatra c’è anche il fatto che le differenze fra i sessi giocano un ruolo nella diagnosi e nel decorso ed influenzano l’approccio del curante e le sue scelte terapeutiche (G. Boidi, 2001).

In particolare la risposta alla terapia antipsicotica ed antidepressiva di svariati farmaci ha diverse tempi di risposta, diversi effetti collaterali nonché diversa efficacia nel trattamento tra i due sessi (E. Costa, 2001).

Tra lo psichiatra che prescrive un farmaco ed il paziente si crea automaticamente il fenomeno della compliance/non compliance, che è, a detta di Salvatore Freni (1998), essenzialmente un fenomeno psicologico che può essere compreso soltanto qualora si applichino al processo farmacoterapico i modelli più tipici della relazione psicoanalitica (transfert/controtransfert, resistenza, meccanismi di difesa dell’Io, ecc. ecc) all’interno della cornice terapeutica (il cosiddetto setting) in cui si inserisce la relazione stessa e il suo declinarsi lungo un asse verità/bugia nello stile, forma e contenuto della comunicazione tra psichiatria e paziente.

Inoltre è sempre più labile la classica dicotomia tra terapie biologiche e terapie psicologiche (P. Pancheri, Italian Journal of Psychopatology, 2005), un numero crescente di studi scientifici avvalora l’ipotesi del maggiore giovamento della combinazione di farmacoterapia e psicoterapia (terapia integrata)piuttosto che dai singoli trattamenti (F. Calvosa, 2002).

         Difficoltà oggettive: La Psichiatria che cambia in un mondo in trasformazione, oggi la psichiatria si è posta sulla linea dell’evidence based medicine con lo sviluppo di sistemi diagnostici, scale di valutazioni, interviste cliniche strutturate e, linee guide per il trattamento.

Anche Favarelli e colleghi (2006), sottolineano come l’attuale modello nosografico dei disturbi mentali appare debole e talvolta inadeguato: le categorie del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders” (DSM) e dell’”International Classification of the Diseases” (ICD) mostrano un’eterogeneità; alti tassi di comorbilità rappresentano un grande limite delle linee-guida che, in genere prevedono il trattamento di un singolo disturbo. La presenza di categorie diagnostiche così poche specifiche e definite rende di difficile interpretazione i risultati ottenuti nei trial clinici, che rappresentano le evidenze su cui si basano le linee-guida (Parker 2004). Ma i ricercatori segnalano come le evidenze ottenute dai trial sponsorizzati dalle compagnie farmaceutiche con risultati positivi hanno maggiore probabilità di essere pubblicati rispetto agli studi negativi; le linee – guida per il trattamento risentono quindi dell’assenza degli studi negativi mai pubblicati (Barbui et al. 2004), pertanto i campioni inseriti nei vari studi sono poco rappresentativi della realtà clinica.

Non affronterò il tema della prescrizione di psicofarmaci nei bambini e negli adolescenti, a questo proposito Gabriele Masi, in psicofarmacoterapia clinica (2006), sottolinea come l’uso in età evolutiva rappresenta un argomento delicato e spinoso. Sono ancora necessarie informazioni dalla ricerca di base e da studi clinici sull’effetto dei farmaci psicoattivi sul SNC in fase di sviluppo. E’ previsto, entro breve tempo, la registrazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco, del metilfenidato (Ritalin) per il trattamento dell’ Adhd. Si stima che in italia circa 5000 bambini siano trattati con il Ritalin. Gli effetti iatrogeni di questo farmaco sono la tachicardia fino all’arresto cardiaco, comparsa di allucinazioni, convulsioni, anoressia, arresto della crescita.

A proposito del Ritalin, Luigi Cancrini (2006), psichiatra, sottolinea, anche in qualità di membro della commissione Parlamentare sull’Infanzia, che non ci si rende conto di cosa implica somministrare psicofarmaci stimolanti ad un bambino di 5 o 10 anni, del tipo di impatto sul suo metabolismo, sul sistema ormonale, sul suo sistema nervoso, in via di sviluppo.

Nelle prescrizioni agli anziani si deve tenere conto del deterioramento cognitivo, di come l’uso degli antipsicotici aumentano il rischio di eventi cerebrovascolari. Così pure si deve avere massima accortezza nella prescrizione a quei soggetti con patologia cardiovascolare o renale o epatica.

Prendo in considerazione la terapia con neurolettici e neurolettici atipici, nei soggetti con disturbi mentali veri e propri, disturbi schizofrenici e disturbi dell’umore più o meno resistente alla terapia, farmaci altamente iatrogeni.

La complicazione più temibile è la Sindrome Maligna da Neurolettici, caratterizzata da segni extrapiramidali, da ipertermia, squilibri elettrolitici, compromissione del sistema nervoso autonomo, leucocitosi ed elevato aumento di CPK. Bisogna intervenire d’urgenza con ricovero in reparti di terapia intensiva.

Gli psicofarmaci antipsicotici (neurolettici), di solito possono provocare effetti extrapiramidali (EPS): una discinesia tardiva, un parkinsonismo (sbilanciamento delle attività dopaminergica e colinergica nei circuiti dei gangli della base), distonie acute o acatisia come succede anche con l’uso degli atipici (Clozapina, Quetiapina, Olanzapina), Amisulpiride, Risperidone. Questi farmaci possono provocare per una iperprolattinemia, disfunzioni erettile o mestruale, neoplasie mammarie, osteoporosi, aumento di peso, iperlipidemie, diabete mellito, QTc lungo all’ECG (> 425 ms), ed ancora leucopenia, granulocitopenia, ipertrofia prostatica, ipotensione, ipotiroidismo, epilessia, insufficienza epatica, insufficienza renale.

Ma provocano anche una “depressione acinetica” o “depressione farmacologia”. Per questa caduta di attenzione, di contatto con l’ambiente circostante, sono di recente introduzione i concetti di “tossicità comportamentale”, “sindrome deficitaria indotta da neurolettici”, “zombie-Like sindrome”, “parkinsonismo cognitivo”, “parkinsonismo sociale”

Non tutti i pazienti trattati con neurolettici sviluppano parkinsonismo iatrogeno.

L’utilizzo preventivo di anticolinergici è sconsigliato dall’OMS se non in individui con fattori di rischio.

Con i nuovi farmaci antipsicotici atipici è significativamente più bassa l’incidenza dei disturbi extrapiramidali, anche se vi è grande scarsità di studi comparativi controllati a lungo termine con grandi gruppi di pazienti.

Ci sono degli esami preliminari da eseguire prima dell’uso di questi farmaci quali creatin-fosfokinasi, emocromo completo, azotemia ed elettroliti, prove di funzionalità epatica con lipidogramma, prove di funzionalità tiroidea, pressione arteriosa ed infine il controllo del peso corporeo. Eseguire una Prolattinemia per candidati all’uso di Amisulpride, Olanzapina e Risperidone. Tenere sotto controllo la glicemia per candidati all’uso di Clozapina, Olanzapina e Quetiapina.

Eseguire un elettrocardiogramma per candidati a rischio per l’uso di Clozapina. Un controllo elettroencefalogramma per candidati a rischio per l’uso di Clozapina. Questo rende l’idea della probabile pericolosità di questi farmaci; teniamo in conto che esistono potenziali interazioni degli atipici via CYP 450 con alimenti, farmaci, sostanze di abuso con alcuni inibitori, induttori, substrati e polimorfismi degli isoenzimi preferibilmente coinvolti.

Vi segnalo per la Clozapina il rischio mielo-soppressivo che si può instaurare se vengono prescritti, contemporaneamente i seguenti farmaci: LARGACTIL®, PROZIN, MELLERIL; ADEPRIL, LAROXYL, TRIPTIZOL, ANAFRANIL, LANTANON, TEGRETOL, DINTOINA, LAMICTAL, Fargan, Farganesse.

E poi l’uso di antibiotici e chemioterapici come cloramfenicolo, BACTRIM, GENTALIN, AMPLITAL, CIPROXIN, PLAQUENIL, NOVALGINA, BARALGINA TACHIPIRINA, BUSCOPAN, BRUFEN VOLTAREN, diuretici sulfonamidici.  Non deve essere usata la cimetidina, nifedipina, il betabloccante del gruppo nadololo, l’antineoplastico aminoglutetimide, gli anoressizzanti come l’anfepramone,l’antitiroideo tiamazolo (TAPAZOLE) e per finire gli ipoglicemizzanti orali: DIABEMIDE®, DIAMICRON®. Da tutto ciò si evince la pericolosità dei neurolettici. Le patologia cardiovascolari sono la principale causa di morte tra i pazienti schizofrenici: il tasso di mortalità per patologia cardiovascolare può raddoppiare rispetto alla popolazione generale.

Quando la prescrizione di psicofarmaci si associa ad una psicoterapia individuale o gruppale e/o familiare e ad un progetto di riabilitazione, di arte-terapia, di musico-terapia, allora non è possibile, usare farmaci con dosaggi alti (cosiddetta iper-neurolettizzazione) in quanto coartano le possibilità psicodinamiche del paziente. L’uso di farmaci e psicoterapia e/o riabilitazione permette un utilizzo di quantità minori di psicofarmaci. Già dal 1990 l’associazione americana dei direttori delle scuole di specializzazione in Psichiatria ha posto con grande preoccupazione l’irrinunciabile necessità di formare psichiatri capaci di integrare psicoterapia e farmacoterapia. La terapia farmacologia nei soggetti con tossicodipendenza, richiede una particolare competenza, si parla di doppia diagnosi: da patologia da droghe e da patologia psichiatrica.

In generale la scelta del farmaco non è solo legata ad un minor danno per l’organismo ma all’accettazione da parte del paziente, della famiglia del paziente o dell’ambiente in cui egli vive.

Ritengo che alla base del dolore mentale ci sia la paura di perdere il contatto con gli altri, una paura che può essere su base organica, a livello del locus coerulus e dell’amigdala, che controlla il comportamento dei <pericoli innati>, di solito in stato di freezing, ed altre risposte difensive in situazioni minacciose (J. LeDoux, 2002), a sua volta il sistema limbico e la corteccia frontale intervengono nel controllare la paura originatesi nell’amigdala. La paura può insorgere in un rapporto affettivo disturbato con la madre, dovuto ad uno stile di interazione caratterizzato da una mancanza di risposte emotivamente sintonizzate da parte della madre stessa; più frequentemente rifiuti, rigidità, e vissuti spiacevoli (A. Pazzagli e B. Guerrini Degl’Innocenti). Va sottolineato come l’emozione paura insorge in tutti i casi di separazione, partendo da quello di separazione dalla madre fino a quelle separazioni, sempre dolorose, tra i nostri desideri, i nostri progetti e la realtà esterna a noi (M. Giampà, 2005). Il dolore mentale è una esperienza che può emergere e riemergere in rapporto a micro o macro eventi, può promuovere il cambiamento nella personalità di un individuo, dargli una nuova visione del mondo; esso è legato alla memoria emotiva e quindi ad una parte molto primitiva della personalità: feto a termine, neonato, bambino (M. Giampà, 2000). Lo psicofarmaco, quasi sempre pone problemi di bioetica, un esempio c’è fornito da Janiri, quando scrive che gli stati d’ansia prolungati non giustificano trattamenti farmacologici protratti, poiché le benzodiazepine sono farmaci sintomatici e a lungo termine creano dipendenza anche fisica. Qui il problema è come aiutare il soggetto a fronteggiare la sua ansia ricorrendo a mezzi non farmacologici, ma il pensiero di alcuni casi “difficili” mi suggerisce di proporre il quesito etico nei termini seguenti: si sta aiutando il paziente a reperire una strategia contro il suo sintomo, o si sta colludendo con la sua “ansia” di benessere rendendolo passivo e alimentando i suoi bisogni di dipendenza?

Per concludere,

Quando il farmaco prende il posto della relazione, il paziente non solo soffre degli effetti collaterali del farmaco, ma perde l’effetto curativo della relazione stessa (TM Luhrmann, 2000).

 

 Bibliografia  

Altamura A. C., Farmacoterapia: un grande futuro dietro le spalle, Giornale italiano di Psicopatologia, Pacini Editore, vol. 11, supplemento, marzo 2005

Callosa Fausta, Il trattamento combinato e la psichiatria, in Idee in Psichiatria, vol. 2, n. 3, 2002.

Cancrini Luigi,in http://www.nopsych.it/article415.html, 25 gennaio 2007.

Canova L., Scarlato V., L’utilizzo di neurolettici nella relazione con il paziente psicotico, in Psiche Donna, Rivista di Psichiatria & Psicosomatica delle differenze, vol. II° - n. 3/2001, CIC edizioni internazionali, Roma.

Costa E., Distimia, comorbidità e risposta a terapie SNRI, in Psiche Donna, Rivista di Psichiatria & Psicosomatica delle differenze, vol. II° - n. 3/2001, CIC edizioni internazionali, Roma.

Bellodi L., Complessità e psicopatologia, Giornale italiano di Psicopatologia, Pacini Editore, vol. 11, supplemento, marzo 2005  

Biggio G., I farmaci e il cervello che cambia, Giornale italiano di Psicopatologia, Pacini Editore, vol. 11, supplemento, marzo 2005  

Boidi G., Donne e schizofrenia: raccomandazioni per il trattamento, in Psiche Donna, Rivista di Psichiatria & Psicosomatica delle differenze, vol. II° - n. 3/2001, CIC edizioni internazionali, Roma.

Della Rocca Federico, La diffusione dei disturbi mentali: un’evidenza da non sottovalutare, una sfida da raccogliere, in Il Caduceo, vol. 8°, n. 3, 2006, Editore RM ’81 - Roma

Di Giannantonio M. e Alessandrini M., Il Congresso nazionale SIP e le metamorfosi nella psichiatria contemporanea, in Psichiatria Oggi, anno VIII°- n. 3 – giugno 2006

Faravelli C., in Psicofarmacoterapia clinica, a cura di Marazziti D., Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006

Giampà M., Il dolore mentale, in Atti della Accademia lancisiana, vol. XLIV° - n. 2, 2000.

Giampà M., Mind-Body problem, in Atti della Accademia lancisiana, vol. XLIX° - n. 1.

Janiri L., Aspetti etici dei trattamenti psicofarmacologici protratti, editoriale in Idee in Psichiatria, vol. 2, n. 2, 2002, Società Editrice Universo – Roma.

Ledoux J., Il Sè sinaptico, come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.

Luhrmann TM, Of two minds: the growing disorder in american psyciatry, New York, Alfred A Knopf, 2000 – citato da Fausta Calvosa in editoriale Idee in Psichiatria, vol.2, n. 3, 2002.

Freni S., Psicofarmacopsicoterapia, Edizioni La Vita Felice, Milano, 1998.

Pancheri P., Cassano G. B., Trattato italiano di psichiatria, Masson, Milano, 1999.

Pancheri P., L’universo dimensionale della psicopatologia, Giornale italiano di Psicopatologia, Pacini Editore, vol. 11, supplemento, marzo 2005.

Pazzagli A. e Guerrini Degl’Innocenti B., Trattamento psicoanalitico dei disturbi d’ansia, Trattato italiano di psichiatria, vol. 2°, Masson, Milano, 1999.

Perozziello F., Il “Sentire l’altro” nell’operare psichiatrico, in Psichiatria Oggi, anno VIII° - n. 6 – dicembre 2006

Perugi G., I modelli di spettro in Psichiatria, Giornale italiano di Psicopatologia, Pacini Editore, vol. 11, supplemento, marzo 2005.