Belli e Trilussa: poesia e salute

di

   Giuseppe Guarini

 

Numerosi furono nei due secoli appena trascorsi i poeti del vernacolo romanesco che con astuto e dissacrante umorismo  ebbero il pregio di creare una lette­ratura di elevato profilo culturale ancora oggi oggetto di specifiche ricerche di  studiosi  di costume e di  tradizioni popolari.

    Fra questi poeti del vernacolo romanesco preminenti sono, ancora oggi Gioacchino Belli (1791-1863) e Carlo Alberto Salustri noto con lo  pseudonimo Trilussa:  acronimo del suo co­gno­me. Due poeti accomunati da un profondo amore per il popolo della loro città di cui furono attenti ed arguti testimoni dei costumi, delle consuetudini e degli scanzonati comportamenti del vivere giornaliero.

      Il  modello prevalente con cui questi due poeti esprimono la loro arte è il sonetto che è la formula metrica della poesia italiana più comune; suscettibile, in molte occasioni, di poter essere espressa con accompa­gnamento musicale.

     Nel loro comune sottofondo realistico, Belli  è più orientato a scrutare, con intona­zione romantica e crudo cinico realismo, spesso licenzioso e non raramente scurrile, il carattere e  l’ambigua morale  del popolino romano.

   Trilussa disegna invece, in modo caricaturale seppure con un sottile  linguaggio spesso sferzante, la piccola e media borghesia romana, evidenziandone i pregi, i difetti e le me­schi­ne furbizie.

    La produzione poetica di Belli e  di Trilussa in vernacolo è stata imponente. Belli in 20 anni compilò oltre 2200 sonetti romaneschi  Trilussa circa un migliaio. Eppure in una così imponente attività letteraria, questi due poeti, animati da un comune spirito scaramantico ci hanno lasciato ben poche poesie di contenuto medico-sanitario. Ovviamente queste poesie esprimono lo spirito burlone del popolo romano verso medici e medicine.  Sono  tutte più o meno ironiche, talvolta addirittura sarcastiche.

 

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     Del Belli ricorderò subito la poesia dedicata agli Ospedali di Roma datata 1833. Questa poesia ci consente non solo di conoscere quanti fossero gli ospedali allora funzionanti in questa città, ma anche di sapere in quale campo della patologia umana fossero spe­cializzati. Da notare che i due ultimi versetti di questo sonetto indicano come anche nella Roma ottocentesca, nella sanità vi fossero privilegiati  e svantaggiati e la dicono lunga su come anche nella Roma di allora vi fosse una netta separazione fra assistenza gratuita pubblica ed assistenza privata a pagamento.

 

LI  SPEDALI  DE  ROMA

                                        Qua  avemo sei Spedali, e ttutti granni

che cce sei medicato e stai bbenone

  Si ttrovi cuarchiduno che tte scanni,


ciai lo Spedàr de la Conzolazzione:

 

     Ciai San Giachemo, senza che ttaffanni,

      si gguadaggnassi mai cuarche bbubbone:


c’è Ssan Spirito poi e Ssan Giuvanni

che ccura ammalatie d’oggni fazzione.

 

Hai la tiggna? te pía San Galigano,

Dove tajjeno auffa1 li capelli.

Mejjo de Rondinella  er babbilano2

 

Finarmente sce li Bbonfratelli:

     Ma cqui nun appizzacce oggni cristiano.

Cuesto nun è Spedàr da poverelli.

 

    In un’altra serie di sonetti Belli esamina con occhio critico l’infezione di colera che nel 1835 colpì la Francia  e l’Italia settentrionale. Nello Stato Pontificio la malattia comparve ad Ancona. Su quanto accadde in questa epidemia il Belli compose 34 sonetti  di cui qui riporto solo quelli, a mio parere,  più salaci  e sferzanti sui medici e sull’ organizzazione sanitaria dell’epoca. Il primo sonetto è scettico sulla credibilità delle notizie che proven­gono da Ancona. I successivi  prendono atto della situazione e ironizzano

 

 

ER COLLERA MORIBBUS

Converzazzione a l’Osteria de la Ggenzzola

Ariccontata co ttrentaquattro sonetti

 

SONETTO  2273

Perchè nnun c’erano antri guai stasera

Scappeno fora cor collèra  a Ancona

Mò, ammalappena una campana sona,

Sona a mmorto, e sto morto è de collèra.

 

Sarà  ccrepata ar più cquarche pperzona

De fonghi3 o dde lumache  o ffichi o pera ...

Ebbè ddich’io sc’era bbisoggno, sc’era,

De tutta sta chiassata bbuggiarona ?  

 

Nun zerve, cqua er collèra, sor Raimonno4

Se lo vanno a ccercà ccor moccoletto

Lo chiameno, per dio, proprio lo vonno.

 

Quer ch’ è ccerto è cc’a Ancona li facchini

Se moreno de fame , e me l’ha ddetto

‘Na riverea5 de Monziggnor Pasquini  

 

 

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1 auffa = gratis:

2 meglio avere a che fare  con il Babilano che con Rondinalle.  Rondinella = noto parrucchiere che rasava il capo dei degenti:  Babbilano = Babilano Pallavivini che aveva sposato una giovane romana  con cui fu incapace di assolvere ai doveri coniugali

3  fonghi = funghi

4 Raimonno = Raimondo medico inviato dal Papa

5  riverea = servitore

 

 

 

 

 

SONETTO  2274

Antro che Ancona! Quer futtuto male,

Malgrado li rigori der cordone6,

Dava de griffo   a ccentomila Ancone

Senza er congeggno der dottor Viale7.

 

Nun sapete che llui cor cannocchiale8

Vedde er colera in forma de dragone,

E ggnisu nantro medico cojjone

Aveva mai scoperto st’animale

 

Che bbrutta bbestia! Ha un par de corna armate

Com’er demonio: porta l’ale: è ppiena

D’artijji, e nnera poi com’ un abbate.

 

Figurete che ssorte de sfraggello

Ha da fa in corpo a un pover’omo , appena

Je s’arriva a ccaccià  ddrent’ar budello

 

 

 

SONETTO 2275

Oh sentite mò st’antra bbuffonata

C’ha ffatto a Ancona er zor dottor Cappello9

Ve ccon cappuccio in testa, e sott’a cquello

Tiè un guazzarone de tela incerata

 

Soprr’un occhio sce porta uno sportello

De vetro, e in mano un fascio d’inzalata10

De grazzia, e da ch’edè st’ammascherata ?

Da pajjaccio, da Cola o da Coviello?

 

Bbasta lui co sta bbella accimatura

Se pèresenta all’infermi accap’a lletto

Pe sballalli ppiù ppresto de pavura.

 

Defatti appress’a lui passa er carretto,

E straporta ppiù mmorti in zepportura

Che nun tiè er Papa cardinali in petto

 

 

 

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6 cordone = cordone sanitario

7Viale = noto clinico universitario romano.

8 cannocchiale = microscopio

9 Cappello = ispettore sanitario delo Papa

10 inzalata = erba deodorante

 

 

 

Sora Cristina mia, pe un caso raro

 Io povero cristiano battezzato

 Senz’avecce né corpa né peccato

M’è vvienuto un ciamorro da somaro

 

Aringrazziat’Iddio! L’ho ppropio a ccaro!

E mme lo godo tutto arinnicchiato

Su sto mio letto sporco e inciafrujjato,

Come un zan Giobbe immezzo ar monnezzaro

 

Che cce volemo fà ggnente pavura ,

Tnt’è ttanto le sorte sò ddua sole:

Drento o ffora; o in figura o in zepportura.

 

E a cche sserveno poi tante parole ?

Pascenza o rabbia sin ch’er freddo dura:

Staremo in cianche quanno scotta er zole.  

 

 

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Per quanto riguarda Trilussa dirò subito che la produzione letteraria di questo poeta è molto povera di riferimenti a medici, medicine. Infatti solo tre  sonetti molto mordaci sono attinenti  a problemi di medicina. Il primo pubblicato nel 1920 ironizza sugli effetti del trapianto del testicolo di montone nell’uomo anziano come proposto dal medico russo Voronoff. Sergio Voronoff, medico russo nato nel 1866, che aveva attuato, agli ini degli anni ’20 del secolo  scorso, il trapianto di testicolo di montone nell’uomo come terapia dei malanni della vecchiaia e rigeneratrice del vis procreatrice maschile. Fatto troppo ghiotto per un sar­castico poeta come Trilussa. Il secondo ironizza sulla teoria dell’evoluzione darviniana ed il terzo sulle vaccinbazioni obbligatorie per adire ad ogni pubblico impiego.

 

LA SCOPERTA DE VORONOFF

 

Un professore ha fatto un’invenzione:

dice  che quanno un omo è indebbolito

se je metti una grandola in un sito

ridiventa più forte de Sansone

 

Con una grandoletta de nontone

ha raddrizzato un vecchio rimbambito,

tanto ch’er vecchio ha subbito sentito

le conseguenze de l’operazzione.

 

E dice, pe’ de più che sta scoperta

serve perfino a rinforzà er talento

a chi nun cià la mente troppo aperta....

 

Anzi er dottore, ch’e un ometto pratico,

Pare che voja fa’ l’esperimento

còr Fascio libberale democratico.

 

 

L’INNESTI

L’innesto de cavallo, ciacconsento,

in specie s’è d’un legno padronale;

ma quello de somaro pò fà male.

te pò attaccà l’arterie der talento.

 

Naturarmente, se te schiaffi drento

er sangue che ciaveva un animale,

succede che je piji er naturale

e creschi co’ l’istesso sentimento.

 

L’innesto del vaccino me lo spiego:

Non porta preggiudizzio...eppoi, d’artronne,

senza de quello manco ciai l’impiego.

 

Ma puro lì, cor sangue che s’attacca,

L’omo pija der bove , e a certe donne

j’arimane l’istinto della vacca.

 

 

L’ANTENATO

 L’Omo è sceso dalla Scimmia

- Barbottava un Professore -

nun me pare che ‘sta bestia

ciabbia fatto troppo onore....

 

                                            - E’ questione de modestia –

                                             -je rispose un Ranguttano-

                                           l’importante è che la scimmia

                                             nun sia scesa dar cristiano.

 

 

 

 

   Nel concludere consentitemi una digressione sul tema di questo mio modesto elaborato. Desiderto proporvi una poesia di Trilussa che a mio avviso non è soltanto un capolavoro del vernacolo romano ma del sentire umano in una delle sue più nobili espressioni.

 

LA CECA

Quela Vecchietta ceca ch’encontrai

La notte che me persi en mezzo ar bosco

Me disse se la strada nun la sai

Te ciaccopagno io che la conosco.

 

Se ciai la forza de venimme appresso

De tanto in tanto te darò na voce

fino là  in fonno dove c’è un cipresso

Fino là in cima dove c’è na croce

 

Io risposi:   me pare strano

che possa guidà chi nun ce vede.

La ceca allora me piò la mano

e me disse:   Cammina !

 

                                        Era LA FEDE

 

 

Grazie.