IL CONTROLLO DELLE NASCITE NELL’ANTICA ROMA

            BIRTH-CONTROL IN THE ANCIENT ROME

         Accademico Fabio Liguori *

 

         Riassunto - Gli antichi metodi contraccettivi configuravano un repertorio di superstizioni e precauzioni inutili, mentre alimentazione ed igiene deficitarie causavano irregolarità cicliche e diagnosi tardive di gravidanza. Per la pianificazione delle nascite a Roma si ricorreva al disconoscimento ed abbandono di neonati (specie di sesso femminile) lasciati morire sulla pubblica via; ed all’aborto tardivo (spesso mortale) la cui decisione spettava al futuro padre. Il decremento demografico sarà una delle cause del crollo dell’impero. Raffronto con la moderna era biotecnologica.

            Parole chiave – Antica Roma, selezione nascite, aborto

 

            Summary – The ancient contraceptive methods were represented by a list of superstitions and useless precautions, while nourishment and scarce hygiene were causes of cyclic irregularities and tardy diagnosis of pregnancy. They get to birth-control in Rome by refusing to acknowledge the new-born babies (especially of female sex) and by abandoning them in the public street, leaving them die; moreover there was the decision, taken by the future father, to practise the tardive abortion (frequently a mortal one). The demographical decrement will be one of the reasons that bring about the fall of the Roman Empire. Here a confrontation with the biotechnological modern era.

         Key words – Ancient Rome, birth-control, abortion

 

         Ogni società organizzata ha cercato di controllare il proprio tasso di natalità; ma gli antichi “metodi” contraccettivi costituivano solo un curioso repertorio di pratiche magiche, superstizioni e precauzioni (erbe, lavande, cappucci, esercizi fisici) per lo più inutili. In più, alimentazione deficitaria e scarse condizioni igienico-sanitarie causavano irregolarità mestruali, per cui la gravidanza veniva spesso diagnosticata tardivamente. Pertanto, i tentativi di interromperla con pozioni di erbe nocive (ruta, elléboro, artemisia), oltre ad elevati rischi risultavano quasi sempre fallimentari. Si ricorreva allora all’aborto procurato in uno stato avanzato della gravidanza, dall’esito non raramente infausto: un metodo di “pianificazione delle nascite” purtroppo molto diffuso nell’antichità, specie per concepimenti da relazioni extraconiugali.

         Per il naturale ruolo di ospitalità e nutrimento verso il nascituro che la gravidanza comporta, la questione del controllo delle nascite da sempre s’incentra sulla donna. Etimologicamente il termine “donna” richiama il latino domus, la casa dell’antica Roma di cui doveva aver cura. Più letteralmente discende da domina (sincopato, domna), cioè “signora” della casa. Tuttavia, nella Roma del tempo precetti, proibizioni, simbolismi e riti accompagnavano la condizione femminile sin dal dies natalis: ma non sarà una donna perdente!

         Quel giorno natale ogni neonato veniva sottoposto al rito del “riconoscimento” da parte del paterfamilias (non necessariamente il padre). Deposto ai piedi di colui che ne ha la patria potestas (diritto di vita o morte), se accettato il paterfamilias manifesta questa volontà col gesto di sollevare il bambino tra le braccia. In caso contrario, per liberarsene è sufficiente esporlo sulla pubblica via dove, o è pietosamente raccolto (ma non potrà essere adottato, solo venduto come schiavo), o lasciato morire d’inedia e freddo. Quale diversa accoglienza venisse riservata ai due sessi s’evidenziava al momento stesso dell’attribuzione del nome. Infatti, al maschio vengono imposti tre nomi: praenomen, nomen, cognomen (Marco Tullio Cicerone); alla femmina uno, generalmente quello del padre al femminile (Tullia).

         Con quel semplice atto di “disconoscimento” è dunque facile immaginare quanto elevati fossero gli abbandoni d’indesiderate neonate, ciò che a Roma era la regola per illegittimi e malformati che durerà per più di mille anni. E di fronte all’eccessivo rifiuto di bambine lo storico greco Dionigi di Alicarnasso (60 – 7 a.C.) richiama una legge (attribuita a Romolo) secondo cui ogni romano era obbligato a riconoscere almeno la figlia primogenita. La stessa leggenda del ratto delle Sabine, più che pretesto per guerre o necessità di stabilire alleanze, voleva simboleggiare proprio la penuria di donne a quel tempo a Roma, come anche la poca considerazione nella quale erano tenute.

         Sottomessa alla patria potestà, da puella (diminutivo di puera) gioca con il cerchio, la palla, i dadi, le noci (il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza era detto “avendo lasciato le noci”), e per lei la scuola si concluderà prima dei coetanei maschi. Solo se ha mezzi proseguirà l’istruzione nella letteratura latina e greca sotto la guida di praeceptores, mentre impara a danzare, cantare ed a suonar di cetra.

         Lo stato verginale delle vestali doveva servire a purificare le colpe di tutti perché, spesso ancora puera, la donna veniva fidanzata (sponsalia) anche contro volontà. Nel matrimonio romano (nuptialia), infatti, non vi era spazio per l’amore, prevalendo ragioni economiche per le quali erano i genitori a compiere la scelta nei confronti di figli ancora adolescenti. A differenza della Grecia, dove per le donne l’età minima per il matrimonio era di 16 anni, poteva dunque accadere che a Roma fanciulle andassero in sposa a 11-12 anni. E a difesa della monogamia si considerava valido il matrimonio anche se non consumato.

         Sempre sotto tutela di un maschio (padre, marito, parente maschio più prossimo), con una semplice cerimonia dalla potestà del padre passerà a quella del marito (ubi tu Caius, ego Caia). Ma il matrimonio cambierà la sua vita con l’accesso al rango di materfamilias.

         E’ interessante notare che non si assurge a questo ruolo con il parto, ma è sufficiente il matrimonio, tanto che il termine mater finirà per accrescersi in matrona.

E con l’avvento del diritto romano, per la prima volta si giunge ad una qualche parità tra uomo e donna poiché, oltre le tradizionali prerogative, nel contratto matrimoniale la volontà della donna ed i suoi interessi personali sono tenuti in gran considerazione. La moglie ha tuttavia l’obbligo della fedeltà, e se colta in flagrante adulterio il paterfamilias ha diritto di vita o di morte su di lei. Agli uomini è invece concessa ampia libertà sessuale, tanto che il fine del matrimonio è per loro solo la discendenza.

         Ed ecco la materfamilias onorata per le virtù domestiche di riserbo, austerità, moderazione, pudicizia. Giuridicamente non può adottare né essere tutrice, e socialmente non può far parte di corporazioni (edili, mercantili, finanziarie) né esercitare alcuni mestieri e professioni (come quelle legali). Ma la protezione-dominio del marito non deve sembrare eccessiva. I tempi sono malsicuri, feroci nemici sono spesso alle porte, e di là dalla domus c’è violenza, miseria, carestie, pestilenze. Nel migliore dei casi la donna poteva restar vittima di frodi e raggiri, da qui la limitazione alle sue capacità giuridiche.

         Viene poi il momento decisivo per ogni classe sociale: il parto. A quel tempo, medici ed ostetriche non possono avere alcuna certezza sull’esito dell’evento, ed il 5-10% delle donne muore durante il parto o per le sue conseguenze. Cicerone (106 – 43 a.C.) vedrà morire la dilettissima figlia unica Tullia.

         Nell’età imperiale la matrona gode di dignità, autonomia, ed una certa libertà sociale, e chiede parità di diritti e professioni con l’uomo. Le classi elevate vogliono vivere vitam, e la matrona ricorre alla continenza acquistando ancor più ammirazione ed autorità. Ma, emancipata compagna e cooperatrice dell’uomo, è inevitabile che finisca per assumere anch’essa libertà di costumi.

         L’adulterio raggiunge così tale diffusione che, nel tentativo di porvi rimedio, Cesare Augusto emana la “Lex Julia de adulteriis coercendis” (18 a.C.) che considera l’infedeltà reato anche per l’uomo, il che rappresenta un ulteriore indiretto riconoscimento di parità per la donna.

         Nella scia di Platone ed Aristotele (che sostenevano essere la sovrappopolazione causa della miseria) il popolo è comunque indotto alla limitazione delle nascite. Pertanto, le romane ricorrevano spesso all’aborto (tardivo). La decisione se abortire o non spetta al futuro padre che può ripudiare la moglie qualora abortisca in segreto. Ma l’aborto non è punito in sé, solo se la donna muore, nel qual caso scatta l’accusa di omicidio verso quanti vi abbiano concorso. E se tende a nascondere un adulterio, medico e complici sono puniti come gli amanti (morte, esilio).

         Già a fine Repubblica (I metà del I secolo a.C.), la donna comincia a rifiutare la prole. Di fronte alla crescente denatalità Cicerone chiede di proibire il celibato, ma la legge viene aggirata con finte rotture di finti fidanzamenti. Augusto emana allora un editto che assicura l’affrancazione da ogni tipo di tutela a donne sposate che porteranno a termine almeno tre gravidanze. Ciò nonostante, il decremento demografico sarà una delle cause del crollo dell’impero.

         In un raffronto con la moderna era biotecnologica, quando in diversi Paesi i legislatori iniziarono a por mano al problema della regolamentazione dell’aborto volontario, sulle prime non intendevano legalizzarlo, ma depenalizzarlo nei casi drammatici. Nei successivi dibattiti parlamentari, anziché tendere a rimuovere le cause che portano ad interrompere una gravidanza (in Italia, quasi esclusivamente economiche: non c’è gravidanza, oggi, che non possa essere portata a compimento quale che sia la patologia materna che la condizioni, salvo quella neoplastica), si finì per dare prevalenza al diritto individuale della donna: la cosiddetta autodeterminazione.

         Questo termine ha avuto notevole successo. Ciò nonostante è un brutto, artificioso neologismo che tanti equivoci suscita e nulla dice in sé, se non il fatto di fornire alla donna un apparente giustificativo che ha portato a liberalizzare al massimo l’aborto in Italia (uno dei più permissivi al mondo). Non a caso, infatti, la maggioranza degli aborti avviene in coppie regolarmente sposate e con un primo figlio, così come numerosi sono gli aborti ripetuti nella stessa coppia.

         A questa massiva banalizzazione non poteva non seguire, prima la piaga dell’aborto selettivo prenatale (aberrante specie se, più che ad evidenziare alterazioni genetiche, sia finalizzato alla selezione del sesso), ed ora il lacerante aborto “fai da te” con la pillola abortiva (RU 486). 

         Di là da valutazioni mediche su abusi e rischi legati all’eugenetica prenatale e all’aborto “fatto in casa”, l’autodeterminazione è un ingannevole neo-costrutto che non può restringere il problema alla donna, coinvolgendo la gravidanza tre soggetti (la madre, il padre e il concepito). Perché chiunque sarebbe allora autorizzato a chiedere alla donna: “…tu che stai meditando se abortire, come sei riuscita tu a scamparla? Hai deciso tu di nascere… auto-determinandoti, così sfuggendo alla discriminante sessuale?”! Quello che tuttora avviene in intere regioni del mondo (India, Pakistan, Bangladesh, Corea, Cina, Africa, ecc.) con politiche di cosiddetta “pianificazione familiare”: vale a dire, omicidi di Stato soprattutto per nascenti femmine. Quei milioni di bambine cancellate dalla Terra ogni anno, come nell’antica Roma, ma più tempestivamente ed “asetticamente” oggi, grazie anche alla tecnologia prenatale.

         Tre millenni circa separano la lupa romana (750 a.C.) dalla pecora “Dolly” (1996 d.C.), emblema del moderno progresso bio-tecnologico. Come sono cambiate le cose? La mortalità materna per parto è fortunatamente azzerata, ma già in alcune città italiane il numero degli aborti procurati supera quello delle nascite! Il pretesto per la legalizzazione fu di eliminare quelli “clandestini”, in tal modo generalizzando al massimo l’aborto in Italia. Per quello “fatto in casa”, confinare il “segreto” di una tragedia nella solitudine di un bagno.

         Quanto al “padre del concepito”, a differenza che nell’antica Roma il suo parere, anche se dissenziente per l’aborto, è giuridicamente del tutto irrilevante (legge 194/78). Quando i movimenti più intransigenti ottennero che fosse la donna, soltanto la donna (“l’utero è mio e ne dispongo come voglio io”) a decidere sul proseguimento o non di una gravidanza in qualunque modo iniziata, questa disposizione di legge fu salutata come una “vittoria” dalle femministe. Ebbene, non c’è stata sconfitta più vera per il femminismo in quanto la norma, così esautorando l’uomo, lo deresponsabilizza addossando, di fatto, alla donna tutto il peso di una scelta drammatica con le implicite conseguenze di sofferenza, umiliazione, diminuzione in ciò che invece dovrebbe conferirle il massimo valore. Mentre l’uomo, diretto responsabile della gravidanza, può tranquillamente “lavarsene le mani”. Quanta inadeguatezza degli uomini, comunque, nell’assumersi la responsabilità verso le loro donne!

         E’ questa la conquista di “diritti umani”, “civiltà” e “libertà” (termini tutti invocati a difesa del procurato aborto) per le donne? Sarebbe veramente libera, la donna, se le si desse la possibilità concreta di non abortire (autentica civiltà): difesa ed aiutata, quasi sempre sceglierebbe la vita!

 

* Ginecologo, professore a contratto di Storia della Medicina – II Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi “La Sapienza” - Roma