"L'esperienza delle comunità Terapeutiche applicata all'organizzazione dell'ospedale moderno"

 

 

"L'approccio di Comunità Terapeutica al sistema ospedaliero"

Aldo Lombardo

 

Introduzione

Questo lavoro vuole stimolare la riflessione sui vantaggi di utilizzare l’approccio di comunità terapeutica nell’organizzazione dell’ospedale. Non può fornire in questa sede i dettagli dell’applicazione ma descrivendo l’operatività di una CT propriamente detta auspica la promozione di questo modo di pensare anche nell’ospedale moderno.

 

Tecnologia e Paziente

Progresso tecno-scientifico e fattori economici condizionano la percezione delle priorità dell’ospedale. Questo oggi sembra  sempre meno un luogo di diagnosi, convalescenza e riabilitazione bensì un “quasi-luogo”  di terapie mordi e fuggi e di permanenza sempre più breve. Un letto in un anno ospita da 100 a 150 malati, contro i circa 50 di 10 anni fa.

Allo stesso tempo, quasi ad opporsi ad una spinta alienante verso il tecnicismo, l’organizzazione stenta a prevenire confusione e frammentazione di servizi che spesso si parcellizzano con spreco di risorse  o sono danneggiati per  sensazione di estraneità dei dipendenti. La quantità di protocolli di controllo e sicurezza aumenta di pari passo  col divario tra utenti che per le cure ricevute affettuosamente ringraziano la buona sanità, e utenti che, sentendosi traditi, citano in tribunale l’ospedale per la mala sanità.

I controlli di qualità possono far poco se alla fine non si può agire energicamente persino sul lavoratore inefficiente; e comunque gli uomini non sono macchine o pezzi di ricambio. Il fatto è che nell’ospedale ultratecnologico spesso manca condivisione di responsabilità e senso d’appartenenza. Forse questo fenomeno non riguarda solo l’ospedale. Forse è l’espressione amplificata di cosa succede all’uomo d’oggi in molti ambiti della società, allontanato com’è dai canoni di quel che può essere considerata l’etica  classica;  distratto e lusingato dal potere coinvolgente e travolgente delle tecnologie che lo rendono sempre più dipendente e controllato. 

 

Galimberti (2006) sulle questioni etiche dei nuovi comportamenti scrive: “ L’imperativo etico non può essere dedotto più da una normativa ideale, come è sempre stato dai tempi di Platone, … ma da quella fattualità incessante e sempre nuova che sono gli effetti del fare tecnico. Non più un dovere che prescrive il fare, ma “il” dovere che deve inseguire e fare i conti con gli effetti già prodotti dal fare. E’ l’etica a rincorrere la tecnica e a doversi confrontare con la propria impotenza prescrittiva”. Se lo riportiamo ai cambiamenti che la tecnologia ha prodotto nell’ospedale viene a mente il racconto “La Giara” di Pirandello.  Ad un signore si rompe una giara grande a misura d’uomo. Lo specialista chiamato in soccorso entra all’interno della giara e da lì, con gli arnesi giusti e la sua abilità tecnica, la ricompone. Finito il lavoro però si accorge di essere rimasto intrappolato.

 

Che la tecnologia stia spingendo verso un nuovo modello di ospedale lo si percepisce apertamente. L’ospedale attuale , che ha come priorità combattere le malattie attraverso l’applicazione del bagaglio tecnico scientifico, deresponsabilizza il malato ed opera spesso scelte per lui nell’interesse del successo tecnologico. La sua cultura mette al centro la necessità di usare la tecnologia…. per  entrare in crisi, magari, al momento in cui una persona nel ruolo di paziente, esempio recentissimo il caso Welby, si ribella all’ostinazione d’aver prescritto l’uso della macchina respiratoria salvavita.  Sembra d’immaginare il Computer Al nel film 2001 Odissea nello Spazio rimproverare l’uomo: Come osi tu, piccolo essere insignificante rifiutare me e preferire a me la tua stessa morte?

E’ vero. La tecnologia ha prodotto armi potenti per tutti i tipi di attacco: contro il nemico, contro la natura, contro la malattia. Tuttavia, se in guerra la tecnologia avanzata è adoperata per distruggere il ‘nemico uomo’, in ospedale la guerra tecnologica contro la malattia trascura spesso i bisogni del ‘malato uomo’.

 

Insomma, se il bersaglio dell’ospedale è attaccare e sconfiggere la malattia dell’uomo con tutto l’arsenale tecnico della cultura scientifica, si sente la necessità di contribuire in parallelo alla difesa della salute dell’uomo con l’arsenale della cultura umanistica.               Quello della comunità terapeutica ne è un prototipo. Dove l’ospedale in primo piano pone le malattie dell’uomo la CT pone le esigenze dell’uomo con malattia.

 

Il nuovo Modello d’Ospedale

Conforta sapere che il nuovo modello di ospedale emerso dalla collaborazione tra Umberto Veronesi  e l’architetto Renzo Piano, cofirmatario del Centro Pompidou di Parigi, vada nella direzione della comunità terapeutica.

Nel 2001 il Prof. Veronesi chiama l’architetto Renzo Piano a coordinare  un gruppo di esperti col compito di  tracciare le linee guida teorico-pratiche di un ospedale ideale, moderno ed efficiente. La concezione  dell'ospedale modello, della sua missione e dei suoi obiettivi elaborata dall’ex  Commissione Ministeriale di studio è raccolta  in un decalogo di principi ai quali deve ispirarsi per funzionare al meglio. Primo fra tutti, l'umanizzazione. (Mauri,2001) Il documento specifica che suo preciso compito  è creare salute, intesa non come assenza di malattia, ma come benessere fisico, psichico e sociale.
Umanizzazione, si legge, vuol dire porre la persona nella sua interezza e complessità al centro di tutte le nostre attenzioni e le nostre attività, e renderla il primo motivo di ogni nostra azione. Tutto deve ruotare intorno alla persona (il malato, chi lo accompagna e gli operatori) per rendere possibile il soddisfacimento corretto e completo di tutte le sue necessità, in un rapporto sereno, trasparente, 'a misura d'uomo'.

 

Questa concezione dell’ospedale ‘a misura d’uomo’ è molto familiare e gratificante per chi opera nelle comunità di riabilitazione psichiatrica.  Infatti, man mano che la tecnologia conquista le corsie i sistemi tradizionali ospedalieri di oggi sembrano allontanarsi dalla misura d’uomo: l’ospedale assomiglia sempre più ad officine ad alta tecnologia. La massima collaborazione delle persone chiamate “pazienti” si limita ad un  ruolo di passività. Basta leggere le mission di alcuni ospedali generali per notare l’enfasi sul tecnologico e scientifico.  Esempio:

Arcispedale S. Anna di Ferrara. Cura e assiste, educa e produce cultura professionale, contribuisce allo sviluppo delle conoscenze mediche attraverso la ricerca scientifica.
  Azienda Ospedaliera di Perugia: partecipa alla produzione delle attività sanitarie ed assistenziali di alta specializzazione, di emergenza, di medio impegno assistenziale e di base, nonché delle attività di formazione aziendali ……..

Bambin Gesù: tutta l’attività assistenziale, supportata dalla ricerca scientifica, prepara il continuo affinamento delle metodiche diagnostiche e delle terapie, per il raggiungimento di livelli sempre migliori di servizio….. ecc.

 

Nel documento ministeriale si legge: “Articolato in più livelli, l’«ospedale modello» dovrà essere caratterizzato da un aspetto assolutamente innovativo: la suddivisione in due blocchi. Il primo blocco, dotato di tecnologie avanzatissime, sarà destinato alle degenze ad alto grado di assistenza (high care), al più di tre giorni, con sale operatorie collocate al centro della struttura, che dovranno essere in grado di rispondere a tutte le esigenze chirurgiche. Il secondo blocco dovrà invece essere destinato alla degenza successiva (low care): un vero e proprio albergo, aperto 24 ore su 24 ai parenti dei ricoverati, con camere rigorosamente singole e attrezzatissime”.

 

Se nel primo blocco la cultura gestionale deve essere gerarchica e di controllo,  a servizio della massima efficienza tecnica ,  nel secondo blocco  ambiente e cure dovrebbero essere strutturate secondo l’approccio democratico e partecipativo della comunità terapeutica: una retroguardia nella quale il paziente vive  e condivide con altri suoi pari la posizione di combattente contro il proprio e l’altrui malessere. In questo modo, da un lato limita la spinta alla regressione, all’isolamento e a soffrire in silenzio; dall’altro, nei gruppi di auto-aiuto, stimola la saggia prassi del similia curantur in collaborazione con altri pazienti e con il personale tecnico dello staff. Proprio questo coinvolgimento attivo di combattente è  l’aspetto peculiare dell’approccio di CT posto al servizio dei fini terapeutici.

 

Sull’approccio di comunità terapeutica.

In cosa consiste l’approccio di CT? Cosa può ricevere l’ospedale da questo approccio? Vediamo. La meraviglia di questo approccio è il fatto che  il tipo di cultura organizzativa dell’ambiente, che  al centro pone le esigenze di salute emotiva dell’uomo, riesca a far cambiare comportamenti e attitudini ai suoi membri. Infatti, l’identità di ognuno di noi è il risultato di un continuo feedback proveniente dall’ambiente che emotivamente ci conferma chi siamo e come possiamo pensare di essere migliori nell’adattamento a situazioni nuove. Nella misura in cui dopo un certo numero di mesi questa cultura del pensiero emotivo è assorbita dai suoi membri, si produce l’effetto trasformativo: pensieri nuovi portano ad azioni nuove che ripetute nel tempo diventano abitudini le quali a loro volta diventano tratti del carattere  e di nuova identità.  E come sappiamo il destino di ogni uomo è nel suo carattere. 

 

Tralasciando i cenni storici della comunità terapeutica, per CT si intende una combinazione di  Socioterapia  e Psicoterapia . Socioterapia, come condivisione “democratica” di ruoli di responsabilità verso la cellula sociale di appartenenza e Psicoterapia, come intervento di consapevolezza dei bisogni e dei desideri psicologici dell’uomo per poterne trasformare il modo di rapportarsi con se stesso e col suo ambiente di vita.

La prima riguarda la forma dell’organizzazione, dei ruoli e delle regole di comunicazione. La seconda il contenuto e la qualità della comunicazione.

 

Ma cosa rende peculiare questa combinazione? Essenzialmente due cose:

1) che per curare si rifà ad un modello organizzativo simile ad un organismo vivente altamente flessibile ed adattabile alla complessità dell’ambiente

2) un modo di fare fortemente integrato con la cultura umanistica (noto come modello biopsicosociale) e non diretto solamente dal modello medico.

Una cultura nella quale sono normali le relazioni d’ascolto empatico, il rispetto per le emozioni dei compagni, la responsabilità della partecipazione attiva al gruppo dei pari, l’etica della condivisione democratica. Etica, qui, intesa come costume del vivere bene: come Bioetica.

 

In sostanza il modello non esclusivamente medicalistico della comunità non è che un approccio alla complessità che integrandosi con tecnologia e scienza usa  rapporti umani ed informazione  emotiva.  In quest’ ambito la cura per  “pensieri ed emozioni” della persona è riabilitazione, la riabilitazione è terapia e la comunità nel suo insieme strumento della cura.

 

Naturalmente in questi 60 anni circa della sua applicazione scettici e detrattori hanno chiesto prove che un approccio del genere alla devianza funziona e perché. La difficoltà a misurare l’efficacia di un sistema complesso è intuibile. Tuttavia Lees, Manning e Rawlings (Lombardo, 2004) si sono cimentati in una meta analisi sui lavori di ricerca d’efficacia dell’approccio di CT nel mondo controllati e metodologicamente e statisticamente corretti.

 

Degli 8.160 articoli iniziali una prima eliminazione ne salva 294 perché riguardano in generale gli argomenti di comunità. Di questi, i 181 studi che menzionavano la parola comunità terapeutica anche se eseguiti prevalentemente in UK e Usa, riguardavano 38 paesi del mondo. Estrapolando poi gli articoli relativi a tutte le caratteristiche delle CT democratiche, procede ad una meta-analisi di studi eseguiti con i controlli. Altri 23 studi così vengono eliminati e alla fine, dovendo scegliere tra studi basati sull’esito e studi con controlli, vengono inclusi lavori che mostrano diminuzione di ricadute o recidive criminali dopo trattamento, piuttosto che miglioramento psicologico valutato con gruppi di controllo di soggetti non trattati. Dalla meta analisi solo 29 lavori alla fine sono selezionati. Tra questi 29 studi, 8 usano il controllo randomizzato (grado 1a della Research Evidence). Le meta-regressioni suggeriscono così che ci sono due tipi di comunià terapeutica, democratica (psichiatrica) e di concetto (per le dipendenze) che alle epoche dello studio, insieme costituiscono le sorgenti chiave dell’eterogeneità nella raccolta dei lavori analizzati. L’eterogeneità è lo stesso bassa e la meta-analisi conferma l’efficacia del trattamento di comunità terapeutica con un rapporto di probabilità per la somma totale dei 29 studi di -0.512 (95% confidence intervals compreso tra -0.598 e -0.426). (Lees, 1999).

 

Come è organizzato questo modello non prettamente medico?  I padri delle comunità terapeutiche non lo sapevano ma  per rispondere all’esigenza di gestire la complessità dei problemi dei malati psichiatrici hanno adottato intuitivamente un tipo di organizzazione che oggi sappiamo possedere le caratteristiche di un sistema biologico.  Studiando questo sistema Von Bertanlaffy ha tirato fuori la teoria dei sistemi.  Un sistema è un’organizzazione di elementi che interagiscono tra di loro in modo non lineare, che costituiscono un’entità unica, organizzata e dinamica, capace di evolvere  e di adattarsi ai cambiamenti e alle esigenze dell’ambiente.

 

Pensiamo al corpo umano ed ai suoi organi. Gli elementi del sistema, o sottosistemi, hanno tutti sottocompiti precisi. I sottosistemi sono raggruppamenti di mansioni e ruoli di responsabilità di varie dimensioni. Al fine di mantenere la rotta sulla meta, detta compito primario, l’interazione tra i sottosistemi è mediata dal fluire libero dell’informazione, o feedback, all’interno del sistema. La Toyota, che  ha l’organizzazione aziendale migliore al mondo, è strutturata in modo che con cartellini gialli i vari sottosistemi comunicano ad altri sottosistemi il tipo di produzione di parti necessaria in un determinato momento, es. i montatori di sistemi elettrici informano i produttori di parti elettriche se servono più bobine, centraline o circuiti per parabrezza rispetto magari ai quadri di accensione già prodotti in quantità, o se questi sono difettosi e così via.

I flussi di informazione che regolano la funzionalità del sistema nel tempo diventano norme per l’organizzazione e l’insieme delle norme la sua cultura. Di quest’ultima è depositario il leader che promuove coesione e dinamismo per l’adattabilità del sistema all’ambiente. Egli ha la responsabilità di non perdere mai di vista la stella polare dell’organizzazione e di conciliare prerogative ambientali e compito primario.

 

Il feedback permette un adattamento immediato dell’organizzazione impegnata su  un compito, con notevoli vantaggi per l’efficienza della sua funzionalità. Ad esempio, mentre il sistema è impegnato al compito di far funzionare la comunità, utenti con problemi relazionali disturbano il sottocompito del sottosistema gruppo cucina. La piccola cellula sociale risponde immediatamente con l’adattamento  alla nuova situazione: convoca subito un gruppo straordinario, o di crisi, dove l’iniziale  problema di pochi diventa il problema di tutti. In quell’ambito assembleare col contributo “democratico” di ognuno si sceglie come fronteggiare la nuova evenienza e riavviare il funzionamento della comunità. Anzi, la crisi diventa occasione di apprendimento per tutti, palestra di relazioni sociali e nuovo bagaglio culturale per l’organizzazione.

 

Nell’esempio l’approccio di comunità ha difeso la salute del sistema che si è adattato e non si è ammalato. Questo,  grazie alla partecipazione generale allo scambio d’informazione.  Nel sistema CT la partecipazione è attiva ed improntata sui principi fondamentali di democrazia

condivisione di responsabilità tra staff e pazienti

confronto con la realtà e

tolleranza per le espressioni di sofferenza di singoli membri. Aderendo a questi principi ho avuto modo di notare che la cultura che umanizza ogni ambiente di vita o di lavoro è l’insieme equilibrato di tre fattori: norme, empatia e coesione. (Lombardo, 2004) Ogni squilibrio anche di uno solo di questi fattori allontana il sistema dalla ‘misura d’uomo’.

Tutto questo rende l’ambiente strumento di cura nel suo insieme e la persona è protagonista attiva del proprio cambiamento.

 

Altro esempio che da un’idea di come funziona un sistema è l’aneddoto del problema del piromane che esasperava una piccola frazione di 300 abitanti : un diciassettenne amava guardare il fuoco e lo appiccava un po’ dappertutto. Niente e nessuno aveva soluzione per fargli mutare atteggiamento. Quando esasperati tutti e 300 gli abitanti si riunirono in assemblea nella sala del comune per discutere la faccenda, la soluzione fu trovata: decisero di fargli fare il pompiere.  

 

 

Da cosa è formato il sistema Comunità Terapeutica classico?

Il sistema comunità ha come primary task quello di aiutare le persone ad aiutarsi da sole a  chiedere aiuto appropriatamente;  usa un know-how fatto di ruoli attivi di responsabilità, (empowerment) scelte democratiche, apprendimento diretto dall’esposizione alla realtà della quotidianità, (living-learning). Non ci sono rapporti terapeutici individuali operatore-paziente e l’autorità appartiene a tutto il gruppo dei suoi membri. Questo, per  evitare una regressione psicologica che demanderebbe le responsabilità delle proprie decisioni all’autorità di un singolo operatore.

Ci sono invece gruppi di tanti tipi quante le attività dei sottosistemi. Troviamo gruppi di accoglimento, gruppi di manutenzione della casa, gruppi cucina, gruppi di psicoterapie, gruppi di programmazione psicoeducazionale,   gruppi di separazione, gruppi delle famiglie,  gruppi di auto-aiuto, gruppi emotivi per il sostegno e la prevenzione del burn-out dello staff, gruppi di ricerca e valutazione d’efficacia, gruppi di valutazione clinico-farmacologica,  gruppi di supervisione clinica, gruppi per la formazione continua on the job, gruppi di tirocinio per studenti in training, gruppi di gestione amministrativa, di programmazione delle risorse e consulenza aziendale, gruppi di selezione dei pazienti e del personale, gruppi per la gestione farmaci, gruppi per la sicurezza del personale e la gestione dei rifiuti speciali. Una bella e numerosa complessità.

 

Il gruppo più importante, lo strumento principale della comunità pensante è quello dell’assemblea generale; il gruppo allargato detto Community Meeting (CM).

Il CM è organizzato per processare l’informazione libera proveniente dai sottosistemi per l’adattamento ai problemi contingenti. C’è confronto con la realtà e partecipazione condivisa ai problemi reali della vita quotidiana. Come nel gruppo di crisi, in questo spazio il problema di una persona è il problema di tutti. Attraverso il dialogo si fa esercizio di compromesso tra bisogni individuali e bisogni dell’ambiente. Si prendono decisioni e nel processo di adattamento alla realtà tutti i suoi membri, operatori sanitari e pazienti, crescono.

 

A differenza dei sistemi tradizionali con malati passivi, nell’approccio di CT il paziente si responsabilizza: ovvero, condivide con altri suoi pari ruoli attivi diversificati partecipando attivamente alla sua cura.  E’ proprio questo coinvolgimento attivo che qualifica l’approccio di comunità terapeutica;  non permettendo alla persona disagiata di rimanere isolata e, per così dire, di subire e soffrire in silenzio.

 

Conclusioni

Se guardiamo all’ospedale sotto l’ottica sistemica ci accorgiamo che  principi, compito primario della mission e flusso d’informazione si discostano dalla misura d’uomo auspicati dal nuovo modello d’ospedale: sembrano travolti, cioè, dall’incessante e veloce cambiamento prodotto dalle innovazioni della scienza medica. Socioterapia e Psicologia possono aiutare l’organizzazione ospedaliera a risolvere problemi di efficienza e adattabilità ai cambiamenti senza perdere di vista la meta finale della “cura” dell’uomo.

Se il modello medico si occupa principalmente di parti malate e la tecnologia ospedaliera aiuta gli operatori sanitari a risolvere problemi clinici, l’approccio di comunità privilegia le parti sane della persona e l’organizzazione dell’ambiente di cura. “L’ospedale di domani deve ruotare intorno alle esigenze del malato e non a quelle dei medici”, afferma lo scienziato chirurgo Umberto Veronesi (Veronesi, 2007)  Anche se la sua applicazione più specifica è il settore psichiatrico l’approccio di CT può offrire due tipi di vantaggi: sul piano tecnico, perché con l’ottica sistemica  migliora l’efficienza dell’organizzazione aziendale in toto; sul piano umano, perché offre servizi tecnologici e assistenziali a misura d’uomo per la complessità delle sfaccettature della  sua sofferenza; non solo come paziente ma anche come operatore sanitario.  Non dimentichiamo, infatti, i bisogni di una permanenza più stabile per lo staff negli stessi  ambienti, senza girare, come succede adesso, da reparto in reparto per tappare i buchi delle assenze per malattia; non dimentichiamo nemmeno, al riguardo, i benefici dei gruppi emotivi per lo staff che in comunità sono un antitodo efficace contro il burn-out da fatica psicologica e stress lavorativo. Come sosteneva Tom Main, uno dei padri della Comunità Terapeutica: “Difetti di organizzazione, problemi di apatia, insicurezza e ostilità, difficoltà pratiche, per essere risolti devono essere affrontati con la collaborazione dei pazienti che costituiscono la comunità e sono la fonte stessa dei problemi”. (Main,1992)

 

Per utilizzare un luogo di cura come strumento terapeutico flessibile ed efficace della complessità ci vuole personale ben formato. Un sistema complesso non si organizza senza formazione, senza nozioni basilari sul suo funzionamento, sui suoi strumenti, su concetti di base come feedback, confini, primary task, ruoli e autorità, leadership, management.

La formazione nel campo, così come avviene in ogni azienda di successo che valorizza le risorse umane, si può praticare con lo strumento dei workshops residenziali ai quali partecipa il personale che condivide mansioni complementari. Una formazione del personale non può prescindere dall’esperienza del lavoro di gruppo.

 

Se siamo convinti che i due modelli, medico e di comunità, sono complementari per la cura dell’uomo con malattia si tratta solo di metterli in pratica e di informare decisamente i formatori, le Università, agli indirizzi qui accennati.

 

Riferimenti bibliografici

 

*        Galimbaerti, U. (2006) 12 settembre, 2006 –  Pagina CULTURA La Repubblica

*        Lees J., Manning N., Rowling B. (1999), “A systematic review of Therapeutic Community,

                treatment for people with personality disorders and mentally disordered

                offenders”

*        Lombardo,A. (2004) La Comunità Psicoterapeutica- Cultura, Strumenti, Tecnica. F. Angeli Ed.

*        Main, T.(1992) La comunità terapeutica e altri saggi psicoanalitici. Il Pens. Sc. Ed. Roma. pag.3

*        Mauri, M. (2001)  http://www.forumpa.it/forumpa2001/convegni/7/7.2/maurizio_mauri/maurizio_mauri_72.pdf

*        Veronesi, U. (2007) La  Repubblica 8 gennaio 2007 pag. 1 e 27