“Le donne e la medicina”

 

 

Dott.ssa Laura Gasbarrone

Direttore U.O.C. Medicina Interna 5 e Direttore del Dipartimento di Medicina Interna

Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini  - Roma

 

 

 

            La storia delle donne in tutti i campi della scienza è contrassegnata da una esclusione sociale che risale a tempi molto antichi. Insieme alle difficoltà che hanno caratterizzato lo sviluppo della scienza anche al femminile, l’esclusione sociale ha determinato notevoli disparità di genere che si sono riflettute nel mondo del lavoro, della politica, della ricerca e che hanno condizionato la crescita di una società in cui il genere maschile, soprattutto nelle posizioni apicali, si impone ancora oggi come predominante.

            Possiamo partire subito da quella che è la distribuzione della cosiddetta “forza lavoro” femminile nel campo sanitario. Nel 2004, secondo i dati del Centro Studi per la Ricerca e Sviluppo delle pari opportunità, le donne costituiscono il 60% del personale delle ASL e delle aziende ospedaliere. Si dirà che allora le cose non vanno male come si vuole far credere, ma se entriamo nel dettaglio vediamo che solo il 10,9% è nel ruolo professionale, mentre il 52,8% nel ruolo tecnico e il 65,4% in quello amministrativo; in particolare il 75% del personale infermieristico è costituito da donne. Complessivamente la Lombardia è la regione con il maggior numero di dipendenti donne nel SSN.

            Il tema della esclusione delle donne dal mondo scientifico è stato spesso rappresentato dalla vicenda della matematica Ipazia, considerata la donna più sapiente dell’antichità. Il nome di questa studiosa si è tradotto nel tempo nel simbolo di questa repressione che molte donne hanno subito nel corso dei secoli. Ipazia, nata nel 370 dopo Cristo dal padre Teone matematico e astronomo del museo di Alessandria, inventò l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio; fu barbaramente uccisa da un gruppo di monaci cristiani che la aggredirono, la trascinarono in una chiesa, le strapparono i vestiti, la sfregiarono con conchiglie taglienti e non contenti la fecero a pezzi dando poi alle fiamme i resti del corpo martoriato. Ipazia era colpevole agli occhi dei cristiani, che stavano assumendo il potere attraverso la repressione violenta, di essere neoplatonica, cioè seguace del movimento filosofico che rappresentò l’ultima espressione del pensiero pagano.

            Eppure l’atteggiamento discriminatorio dell’uomo nei confronti delle donne non esiste da sempre. Quando la specie umana comparve sul pianeta, i ruoli tra maschio e femmina erano ben distinti e non prevedevano il predominio dell’uno sull’altra: mentre il maschio cacciava e esplorava l’ambiente, la femmina provvedeva a raccogliere i frutti, preparava il cibo, curava l’abitazione e i figli.

            La prima presenza femminile in campo scientifico è individuabile già nella società preistorica, dove la donna è di necessità botanica, chimica, architetto, medico. Attraverso queste mansioni elabora un sapere che non si contrappone violentemente alla natura per dominarla, come farà il maschio, ma che invece utilizza per proprio vantaggio ciò che l’ambiente offre. Con l’introduzione della scrittura il ruolo delle donne nella scienza inizia il suo declino: nasce un altro sapere, più analitico e incisivo, con il quale l’uomo diventa padrone assoluto della natura fino ad asservirla ai suoi bisogni, mentre alla donna viene proibito l’accesso al mondo della conoscenza, e persino certe aree del sacro furono proibite.

            Il contributo delle donne alla scienza nel corso dei secoli è tutt’altro che irrilevante, ma le scienziate che sono riuscite ad affermarsi sono state persone che nei diversi campi di interesse hanno offerto un impegno sempre superiore a quello dei colleghi maschi e che nel contempo sono riuscite a superare gli innumerevoli ostacoli imposti dai diffusi stereotipi sul ruolo della donna nella società.

            Essendo stato per secoli precluso alle donne l’accesso all’istruzione, ed avendo fondamentalmente accesso a questa solo quelle rinchiuse nei conventi, le donne hanno ottenuto maggiore visibilità nella poesia, nella scrittura e nella pittura, mentre il progredire nelle scienze è stato quasi impossibile nella maggior parte dei casi. Forse a questo è imputabile il pregiudizio secondo il quale le donne sono più inclini alle materie letterarie e linguistiche piuttosto che a quelle scientifiche.

            Solo nel 1874 in Italia venne permesso l’accesso delle donne ai licei e alle università, ma ci vollero molti anni prima che il fenomeno prendesse una rilevanza. Ancora all’inizio del 1900 lo Stato italiano tendeva a sostenere una stretta relazione tra donna e casa, una sorta di binomio inscindibile che poneva l’abitazione come naturale sede della donna. Anche il mondo cattolico si adoperò fortemente a sostegno dello stesso pregiudizio, e nell’enciclica Rerum Novarum si legge “Certi lavori non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso”. Nonostante le difficoltà determinate dall’ambiente culturale, comunque nell’anno 1900 si registrano 250 iscritte alle università italiane, più di 1000 ai ginnasi e quasi 10000 alle scuole professionali e commerciali. In ambito internazionale, nel corso del 1800 alcune donne riuscirono a frequentare le facoltà scientifiche inserendosi nelle comunità scientifiche. Sicuramente si trattava di persone dotate di grande preparazione e tenacia, donne che hanno affrontato e superato le ostilità e la diffidenza tipica degli ambienti elitari maschili riuscendo ad affermarsi come grandi scienziate.

 

Le donne medico nella storia

            La presenza di donne medico nella Scuola Medica Salernitana, in pieno medioevo, è un fenomeno straordinario e unico nella storia della medicina, soprattutto in un periodo di oscurantismo in cui la donna nella società occupa una posizione comunque secondaria. La donna, tradizionalmente ammessa al ruolo di ostetrica o di puericultrice, depositaria di un sapere tramandato da madre in figlia o all’interno di cerchie ristrette, non poteva accedere a forme ufficializzate di sapere né agli insegnamenti accademici, né acquisire licenze per l’esercizio professionale. Fa eccezione in questo periodo la Scuola salernitana, dove sono attive molte donne, non solo accettate nei ranghi dell’organizzazione medica, ma anche tenute in grande considerazione dai medici e dalla comunità. Il primo a ricordarle è uno storico salernitano, Antonio Mazza, priore della Scuola di medicina nel XVII secolo, che nel saggio “Historiarum epitome de rebus salernitanis” scrive “Abbiamo molte donne erudite, che in molti campi superarono o eguagliarono per ingegno e dottrina non pochi uomini e, come gli uomini, furono ragguardevoli nell’ambito della medicina”. La più famosa fu sicuramente Trotula de Ruggero, detta anche Trocta o Trota; la si vuole nata tra il 1030-1040 e morta verso la fine del XI secolo; sposò Giovanni Plateario senior, altro illustre maestro della Scuola, e scrisse il libro “De mulierum passionibus”. Ebbe due figli, Giovanni Plateario il Giovane e Matteo Plateario. Fu una vera “magistra” di fama tale da meritare la docenza presso la Scuola; anche un famoso medico dell’epoca, Raffaele Malacorona, in visita a Salerno affermò di non aver trovato nella città nessuno più esperto nell’arte medica di quanto lo fosse lui stesso, ad eccezione per una “sapiens matrona”. Non fa meraviglia se poi fu messa più volte in dubbio l’esistenza di Trotula e furono attribuiti ad altri medici maschi le sue opere.

            Per quanto riguarda le altre dottoresse, secondo Antonio Mazza “fiorirono insegnando nello Studio patrio e discettando in cattedra” Abella, Mercuriade e Rebecca. Abella si vuole vissuta nel XIV secolo e sembra abbia scritto su un argomento assolutamente non femminile, “De natura seminis umani”; Rebecca Guama nel XV secolo scrisse sulle febbri, l’embrione e le urine; di Mercuriade abbiamo poche notizie, ma pare abbia scritto sui veleni, la peste e la cura delle ferite. Ancora Costanza Calenda nel XV secolo, donna di rara bellezza, figlia di Salvatore, priore della Scuola di Salerno, fu insignita di laurea dottorale.

            La Scuola salernitana fu sicuramente una eccezione. La medicina rimase comunque l’unico sbocco per tutto il medioevo agli interessi scientifici delle donne. Nel XII e XIII secolo la nascita delle università cambiò natura alla ricerca scientifica: teologia, medicina e giurisprudenza divennero professioni che richiedevano una educazione universitaria, ovunque interdetta alle donne. La professione medica era sempre più strutturata gerarchicamente: il dottore era in cima alla piramide, sotto di esso farmaciste, cerusiche e chirurghe, istruite da mariti o genitori, organizzate in corporazioni, preparavano ricette, praticavano salassi; vi erano poi donne che praticavano la professione senza licenza, donne sagge e medici popolari, le cui ricette erano più semplici e più economiche, stranamente simili a quelle dei medici licenziati dalle università. Tra il 1389 e il 1497 quindici donne ottennero la licenza medica in Francoforte, tra queste tre ebree specializzate in oftalmologia araba. Sul finire del XVI secolo Marie Colinet di Berna introdusse tecniche per il travaglio di parto ancora in uso, fece alcuni tagli cesarei e usò per la prima volta un magnete per estrarre una scheggia di metallo dall’occhio di un paziente.

            Durante il Rinascimento vi fu un numero elevato di studiose, tra cui Olimpia Morata e Tarquinia Molza, famose per la conoscenza della scienza greca.

            Nei secoli XV e XVI le aristocratiche italiane venivano educate da famosi umanisti e giovani donne per essere istruite nelle arti e nelle scienze. In Italia le donne esercitavano la professione medica come chirurghi o specialisti vari. Spesso delle donne  medico a Bologna e a Padova nel XV e XVI secolo collaboravano alla dissezione del corpo umano e preparavano i corpi per le dimostrazioni e le lezioni di anatomia: Alessandra Giuliani sviluppò un metodo per svuotare le arterie e le vene riempiendole con un fluido colorato che si solidificava permettendo lo studio in dettaglio.

            I rimedi medici utilizzavano componenti chimici e alchemici, per cui l’alchimia entrò a far parte del repertorio delle donne medico e delle erboriste. Isabella Cortese scrisse il trattato che porta il suo nome su “Secreti della Signora Isabella Cortese, ne’ quali si contengono cose minerali, artificiose e Alchimiche” pubblicato a Venezia nel 1561 e ristampato per oltre un secolo; Olivia Sabuco de Nantes Barrera scrisse un trattato sugli stati mentali e fisiologici umani, ove affermava che le passioni stimolano le secrezioni del cervello che hanno un effetto deleterio sulla salute dando inizio alla malattia.

            Con Elisabeth Grey nella Francia del XVI secolo l’ostetricia cominciò ad essere una scienza, grazie anche alle scoperte di Ambrosie Parè e Louyse Bourgeois. Quest’ultima, dopo varie vicissitudini economiche, imparò l’ostetricia, esercitò la professione tra i poveri e diventò levatrice per la piccola nobiltà e l’aristocrazia; scrisse il più completo trattato di ostetricia dopo i lavori di Trotula: l’opera trattava l’anatomia, le fasi della gravidanza, il travaglio, l’eliminazione della placenta, la morte del feto, l’aborto, la sterilità. Altre levatrici francesi seguirono le sue orme: Margherite du Tertre de la Marche, Marie Anne Victorine Boinvin, la quale ricevette una onorificenza dalla Accademia Reale di Medicina di Bordeaux e diresse vari ospedali, ricevette la Menzione al merito della Corona di Prussia, una laurea ad honorem in medicina all’università di Marbourg nel 1872 e fu membro di diverse società scientifiche.

            La Germania era rinomata per avere donne medico e levatrici ben istruite; Siegemundin di Brandeburgo studiò anatomia, fisiologia e medicina e diventò una delle prime ostetriche scientifiche tedesche. Dorothea Cristiane Leporin Erxleben fu la più importante donna medico tedesco del XVIII secolo, scrisse “Pensieri razionali sull’educazione del gentil sesso”, in cui spiega il suo interesse per la medicina; la sua tesi si basava sul concetto che le medicine di buon sapore avessero effetto migliore, contrariamente a quanto si credeva all’epoca, cioè che le medicine con sapore orribile fossero le più efficaci; fu autrice di un libro sulla putrefazione e sulle 32 sostanze che causano o impediscono il processo.

            Le donne italiane, seppur in minor misura rispetto al medioevo, continuarono a occuparsi dello studio della medicina: Anna Moranti Manzolini, Maria dalle Donne si occuparono di ostetricia.

            In Olanda Aletta Jacobs divenne prima farmacista, poi si iscrisse alla scuola di medicina e nel 1881 intraprese il primo studio sistematico sulla contraccezione, arrivando a fondare ad Amsterdam la prima clinica al mondo per il controllo delle nascite.

            L’ostetricia e la botanica medica rimasero nelle mani delle donne fino a quasi tutto il XVIII secolo, ma poi l’aumento dei medici che uscivano dall’università e la competizione per accaparrarsi i pazienti determinò il declino dello status professionale femminile. La lotta delle donne divenne aspra, ma dopo la metà del XIX secolo le donne non si sarebbero più dovute travestire da uomo per poter studiare scienza e diventare medici, come fece James Miranda Stuart Barry che nel 1812, travestita da uomo e laureata alla scuola di Edimburgo seguì le truppe in Africa, nei Carabi, a Malta e in Crimea e fu nominata Ispettore Generale degli Ospedali Canadesi nel 1857. Mentre moriva la Berry cominciarono le battaglie di Elisabeth Garrett Anderson, che ogni volta che superava con onore gli esami dei suoi corsi veniva invitata a tenere segreti i suoi successi; nel 1861 quando un medico in visita alla classe pose delle domande, solo lei fu in grado di rispondere, per cui fu bandita dalle altre lezioni e in seguito espulsa dall’ospedale di Londra. Non si arrese, si laureò a Parigi nel 1870 discutendo la tesi sull’emicrania, e fu l’unica donna membro della British Medical Association.

            Ancora un gruppo di donne cercò di conquistare l’ammissione alla scuola di medicina di Edimburgo organizzandosi le classi per proprio conto; sfortunatamente le donne erano troppo brave, per cui i maschi insorsero insieme a medici e insegnanti: in tribunale le donne persero! La maggior parte del gruppo si trasferì in Svizzera per laurearsi a Berna, poi tornò ad Edimburgo per fondare la “London School of Medicine for Women”.

            Elizabeth Blackwell nacque a Bristol in Gran Bretagna nel 1821; inizialmente non aveva intenzione di studiare medicina, ma fu convinta da una amica in fin di vita che le confidò che molte delle sue pene sarebbero state risparmiate se fosse stata curata da una donna medico. Iniziò a studiare medicina privatamente e nel 1847 mandò domande di ammissione a tutte le università di New York e Philadelphia: fu respinta da tutte tranne la Geneva Medical College di Geneva a New York. Qui la facoltà fece votare agli studenti se accettare una donna, sicura di un risultato negativo. Convinti della assurdità della domanda, gli studenti risposero  scherzando “sì”, per cui fu ammessa con sdegno e pregiudizio. Si laureò nel 1849, prima della sua classe. Fu ammessa poi alla Ostetricia di Parigi, ove contrasse una infezione agli occhi che le impedì di proseguire gli studi in chirurgia. Lavorò poi in Gran Bretagna, ove conobbe Florence Nightingale. Tornata a New York le fu impedito di lavorare negli ospedali, per cui aprì un consultorio e un ambulatorio per donne e bambini insieme alla sorella. Fu la prima donna ad essere iscritta al British medical register nel 1859 e nel 1868 aprì il Women’s Medical College ove insegnò Igiene. Nel 1875 fu nominata Professore di Ginecologia alla London School of Medicine for Children, fondata da Elizabeth Garrett. Viene ricordata come simbolo della istruzione medica aperta alle donne.

            Le difficoltà si inaspriscono soprattutto in alcune specialità, da sempre e tuttora dominio del mondo maschile. All’incirca nel 1830 Ruth Jackson fu la prima donna medico ortopedico, e la American Academy of Orthopedic Surgeons appena fondata ammise alla pratica dell’ortopedia tutti i suoi membri eccetto lei, finché dopo quattro anni avendo superato l’American Board of Orthopedic Surgery, un esame di nuova istituzione, fu allora ammessa alla Accademia. Ancora oggi comunque alcune specialità rimangono appannaggio esclusivo dei medici maschi: nel 2003 meno del 9% degli ortopedici era donna; anche in chirurgia generale solo un quarto dei “residents” sono donne, in neurochirurgia le donne sono solo il 10%, in chirurgia toracica il 7%, in urologia il 12,6%. Al contrario in anestesiologia il 27% dei “residents” e il 25,7% dei radiologi è donna.

            I più strenui oppositori della partecipazione femminile alla carriera medica sostenevano di farlo in nome della scienza e nell’interesse dei malati: “la presenza delle donne, inferiori e più stupide degli uomini, avrebbe rallentato i nuovi saperi e i malati sarebbero stati curati male da persone non all’altezza del compito”.

            Negli ultimi decenni del 1800 la causa delle femministe italiane fu supportata dai movimenti dell’Europa del nord; nel 1870 Re Carlo XV di Svezia sottoscrisse una ordinanza pubblica in cui si concedeva alle donne il diritto di esercitare la professione medica, e fece istituire corsi appositi separati per le donne, ma con gli stessi argomenti di studio e sbocchi professionali.

            Curiosamente in Cina, la più antica scuola per le professioni mediche, ammise nel 1879 le donne alla scuola di medicina, in classi separate. Nel 1885 Yamei King fu la prima donna medico. Nel 1933 su 3655 studenti in 28 scuole mediche 619 erano donne, circa il 16.94%; di queste scuole due erano esclusivamente per donne, tre per uomini e le restanti 23 miste.

            Anche in Russia furono approntati centri di studio per le donne che volevano studiare medicina: alla Accademia di San Pietroburgo fu realizzata una sezione per le donne che avrebbero sostenuto gli stessi esami seppure, come in Svezia, in corsi separati. In Polonia era permessa la sola attività inerente alle malattie prettamente femminili e all’infanzia. In Francia le donne potevano dedicarsi sia alla attività professionale sia alla ricerca. Negli Stati Uniti la professione medica è ampiamente aperta alle donne: c’erano ben 500 donne medico nel 1880, ciascuna delle quali guadagnava centomila lire l’anno. Nella Spagna borbonica si da abitualmente alle donne la possibilità di studiare medicina, ma solo a Madrid, poiché altre università rifiutano l’iscrizione delle donne. In Italia la via è stata più complicata perché gli uomini agirono in maniera corporativa opponendosi in massa alle ambizioni femminili, ma dopo anni di lotte anche nel nostro paese si ebbero donne medico.

            E’ nota la vicenda di Anna Kuliscioff, una delle fondatrici del Partito Socialista Italiano, femminista, rivoluzionaria e terrorista, passionale nella vita privata e nell’azione politica. Anja Rosenstein, il suo vero nome, nasce a Moskaja in Crimea nel gennaio di un imprecisato anno tra il 1853 e il 1857 in una bella e ricca casa di un commerciante ebreo. A 18 anni decide di seguire il corso di filosofia a Zurigo, in un ambiente aperto a discussioni e dialoghi in piena libertà di pensiero. Qui trova il suo ambiente ideale e da allora tutta la sua vita sarà contrassegnata dalla continua lotta per la libertà. Tuttavia dalla lettura delle sue biografie e dei suoi scritti non si evince chiaramente se ciò che la ispirava fosse unicamente la profonda esigenza di uguaglianza, parità e giustizia o se non emergesse a volte in lei un non meglio identificato spirito di ribellione contro ogni tipo di autorità costituita. Rimpatriata dalla Svizzera per ordine dello zar, comincia a predicare libertà,  giustizia e ribellione nelle campagne, lavorando a fianco dei contadini sfruttati dal regime. Nel 1878 viene espulsa dalla Francia, pochi mesi dopo processata a Firenze con l’accusa di cospirare con gli anarchici. Alcuni mesi dopo viene arrestata a Milano; in questo periodo si avvicina alle posizioni del socialismo di più ampio respiro, ma le sue frequentazioni continuano ad essere pericolose e viene pedinata. Nel 1881 si separa da Andrea Costa che ha appena fondato L’Avanti; la separazione è dolorosa soprattutto per l’animo malinconico di Anna che scrive “Tu cerchi in me il riposo, io in te la vita; tu non vuoi o non puoi capire che l’abbandono, la pienezza non sono che la conseguenza di una vita reciproca, piena di comprensione dei pensieri, dei sentimenti, delle aspirazioni. L’uomo non sente questo bisogno”. In realtà Andrea Costa, a detta di Anna, è tradizionalista e maschilista; egli vorrebbe trovare nella sua compagna un sostegno e un collaboratore fedele, ma anche una donna reclusa tra le pareti domestiche come si addice al suo rango di femmina; ciò non è tollerabile dalla Kuliscioff che si porta dietro il pesante fardello ideologico ereditato dai nichilisti russi che teorizzano e vivono l’assoluta uguaglianza tra i due sessi. Divisa da Andrea, torna in Svizzera e si iscrive a medicina, cominciando una vita di isolamento, di studi e di malattia; aveva contratto la tubercolosi. Si trasferisce a Napoli dove si laurea; qui incontra Filippo Turati, che la descrive come “giovane nichilista russa dalle bionde chiome, dagli occhi azzurri, rivoluzionaria ardente, cinta dall’aureola di chi ha pagato di persona attraverso l’esilio e il carcere e sognato la dolcezza di un incontro”. Gli fa eco Anna dicendo di Filippo Turati che “L’armonia tra genialità e cuore è così rara, e questo è il dono raro di Turati. L’anima inasprita si riposa incontrando delle nature come la sua e principia a riconciliarsi un po’ col genere umano che nella maggior parte degli individui è una brutta bestia”. Nel 1888 si specializza in ginecologia prima a Torino e poi a Padova, poi a Milano comincia la sua opera di “dottora dei poveri”. Il lavoro sul campo va comunque sempre di pari passo con quello intellettuale: nel 1890 esordisce con una conferenza dal titolo “Il monopolio dell’uomo” al Circolo Filosofico Milanese, in una sala gremita alla quale con la passione che l’ha sempre contraddistinta la Kuliscioff illustra le cause della discriminazione femminile; lo stesso Turati si meraviglia dell’atteggiamento degli uditori e non senza una punta di orgoglio riferisce ad un amico che “Avrebbero dovuto buttarla dalla finestra per quello che diceva”. La Kuliscioff addita tra le cause del servilismo sotto il quale è ridotta la donna il parassitismo di una piccola minoranza di donne della borghesia timorate di Dio che “non vivono che di frivolezze, di visite, di toilette, … tutta l’intelligenza e le energie di queste donne è tesa a compiacere all’uomo e la loro arma di difesa è l’astuzia e la finzione e tutti i sentimenti migliori, soprattutto quello bellissimo ed elevatissimo della maternità degenerano necessariamente in grettezza, avarizia ed egoismo domestico”. Secondo la Kuliscioff solo il lavoro sociale e egualmente retribuito potrà portare la donna alla conquista della libertà, dignità e rispetto, mentre il matrimonio non fa che umiliarla in una via crucis perpetua che le toglie la personalità e l’indipendenza nel concedersi anima e corpo ad un marito e a dei figli che non le appartengono: “la donna maritata è l’essere più degno di commiserazione”, e ancora afferma che “vi sono due forme oggi imperanti di servitù della donna nei rapporti sessuali: la prostituzione propriamente detta e il matrimonio a base mercantile”. Nel 1898 viene nuovamente arrestata, insieme al marito Filippo Turati con l’accusa di “aver concertato o stabilito di mutare violentemente la costituzione dello stato ..”. Uscita dal carcere per indulto, continua nelle sue lotte  a favore dei deboli e dei poveri e dei lavoratori indifesi e delle donne. Nel 1908 decide che è giunto il momento di lottare per ottenere la piena cittadinanza per le donne e non lasciare ad altre nella lotta la parte di protagonista; afferma che “il voto è la difesa del lavoro e il lavoro non ha sesso”; secondo lei le donne non hanno ancora sviluppato tra di loro una solidarietà che non prescinda dall’appartenere alla classe. Il vero ostacolo è rappresentato dal clero, che con la sua concezione antimodernista teorizzata e riaffermata da Pio X con l’enciclica Pascendi, non fa che radicalizzare la posizione di inferiorità e sottomissione della donna. sistematico sulla contraccezione, arrivando a fondare ad Amsterdam la prima clinica al mondo per il controllo dlele nascite.

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            Nel 1912 il governo italiano dice no al voto delle donne con una legge di Giolitti che “concedendo il voto a tutti i maschi anche analfabeti, adduce poi l’analfabetismo tra le cause che inducono a non estendere il voto al sesso femminile”. Comincia poi per lei un periodo nero di scoraggiamento e senso dell’abbandono; si firma sulle riviste come Omega, perché si sente l’ultima ruota del carro; è un periodo di disorientamento generale, l’inizio dei movimenti anti socialisti e nazionalisti, anche violenti. E la violenza accompagnò anche il suo corteo funebre per le strade del centro di Milano nel dicembre 1925, quando alcuni fascisti assalirono il suo carro funebre. Nel volume di Carlo Silvestri “Turati lo ha detto” scrive della Kuliscioff: “Quando parli di condottieri il pensiero va soprattutto alla donna mirabile che, se non fosse nata donna e per giunta russa, avrebbe certo interpretato e guidato i destini, per lungo volgere di anni, del Partito Socialista: alludo ad Anna Kuliscioff che dalla tomba ancora illumina la mia vita come un faro di luce spirituale, come una fonte inesauribile di energia e di coraggio morale, come l’esempio stesso della dignità che non transige, della coscienza che non abdica. Leggete le lettere scambiatisi tra i due nelle due settimane immediatamente successive all’assassinio di Matteotti, ed avrete la riprova del fatto che il miglior cervello politico del socialismo italiano fu realmente quello della soave e fiera donna, innanzi alla quale non vi fu mai chi non si chinasse deferente e ammirato, Mussolini compreso”.

            Un’altra donna medico italiana è stata Maria Montessori, nata nel 1870, è stata la prima donna medico dopo l’unità d’Italia. Comincia ad occuparsi subito dei bambini con problemi psichici, fonda la Casa dei Bambini in cui applica una nuova concezione di scuola d’infanzia, il metodo della pedagogia scientifica. Dopo alcuni anni, per i contrasti con il regime dell’epoca, dopo aver visto bruciati i suoi libri sia a Berlino sia a Vienna, è costretta anche ad abbandonare l’Italia, dove rientra solo nel 1947 per continuare la divulgazione del metodo che ancora oggi porta il uso nome.

 

I premi Nobel e le donne

            Degli oltre 500 premi assegnati fino ad oggi, solo 11 sono stati attribuiti a donne, due dei quali alla stessa persona, Marie Curie. Qualcuno potrebbe dedurre che le donne sono inferiori agli uomini almeno nel campo delle ricerca scientifica. Ma è sicuramente difficile quantificare l’intelligenza, e ancor più difficile dire se ciò che identifichiamo come intelligenza sia in qualche modo legato al sesso; il peso del cervello femminile è di circa 100 grammi inferiore a quello maschile, ma nessuno ha mai potuto dire se l’intelligenza dipenda dal peso del cervello, dal rapporto tra peso del cervello e peso corporeo, nel qual caso i due sessi sarebbero pari, o non piuttosto dal numero di neuroni presenti e dalla ricchezza e complessità delle loro connessioni. Anche le teorie biologiche sono state impiegate per allontanare le donne dal mondo della ricerca scientifica: le donne erano considerate esseri emotivi e irrazionali e per ciò stesso negate per il lavoro scientifico; si affermava che l’evoluzione aveva sviluppato in loro abilità e attitudini domestiche, per cui troppa scienza avrebbe danneggiato la loro femminilità rendendole inadatte al ruolo di madri.    

            Le dieci donne che dall’epoca dell’istituzione, il 1901, hanno vinto il premio Nobel nei campi delle fisica, della medicina o fisiologia e della chimica sono state:

1903: Marie Curie-Sklodowska, laureata in matematica, per la fisica, insieme al marito Pierre, per la scoperta della radioattività naturale;

1911: Marie Curie-Sklodowska per la chimica, insieme a Henry Becquerel, per l’isolamento del radio e del polonio;

1935: Irene Joliot-Curie per la chimica con il marito Frédéric, per la produzione di elementi radioattivi artificiali;

1947: Gerty Cori-Radnitz , biochimica, per la medicina, per la teoria sul metabolismo dei carboidrati;

1963: Maria Goeppert-Mayer, laureata in fisica, per la scoperta della struttura del nucleo atomico;

1964: Dorothy Crowfoot Hodgkin per la chimica, per la struttura molecolare delle proteine;

1977: Rosalyn Sussman Yalow per la medicina, per la misurazione degli ormoni insulina e della crescita;

1983: Barbara McClintock per la medicina, per gli studi sulla genetica cellulare;

1986: Rita Levi-Montalcini per la medicina, per la proteina che stimola la crescita delle fibre nervose;

1988: Gertrude Elion per la medicina, per le ricerche sulle terapie antiblastiche;

1995: Cristiane Nϋsselein-Volhard per la medicina, per l’individuazione dei geni responsabili dello sviluppo degli organismi;

2004: Linda Buck per la medicina, per le ricerche sui recettori del sistema olfattivo, insieme a Richard Axel.

            Nonostante i meriti siano loro stati riconosciuti in modo ufficiale con il massimo riconoscimento mondiale, la loro esistenza in un cotesto maschile e maschilista non è stata facile. La più difficile delle esistenze è toccata proprio a Marya Sklodowska, la quale ha potuto intraprendere gli studi prima di fisica e poi di matematica solo dopo che la sorella, laureatasi in medicina, l’ha potuta mantenere economicamente. Sposò nel 1895 Pierre Curie e con lui ebbe due figli. Nel 1903 marito e moglie vinsero il premio Nobel per la scoperta della “radioattività”. Nel 1906 il marito morì in un incidente; Marie  succedette al marito nell’insegnamento alla cattedra della Sorbona, riprendendo le lezioni dal punto esatto in cui le aveva interrotte lui. Ricevette il secondo premio Nobel nel 1911 per la chimica. Nella stessa epoca fu coinvolta in uno scandalo che i giornali ingigantirono enfatizzando una sua relazione con il fisico Paul Langevin: un fatto privato che fu oggetto di commenti scandalistici. Nulla di nuovo sotto il sole, perché oggi nel 2006 anche in politica, sia in Italia che all’estero, ormai non si fa altro che dare la caccia allo scandalo nella vita privata per gettare discredito sugli avversari politici! Marie Curie morì nel 1934 di leucemia, sicuramente contratta a causa delle radiazioni accumulate lungo il suo lavoro, in epoca in cui non si aveva ancora nozione della loro pericolosità.

            Un esempio della ostilità del mondo accademico ad accettare nuove idee è dato dalla vicenda di Barbara McClintock, nata nel 1902 e morta a 90 anni dopo aver conseguito il premio Nobel: è stata definita la “mamma della genetica” perché scoprì i cosiddetti “geni mobili”, quei tratti di DNA che si spostano da un cromosoma all’altro in modo autonomo e imprevedibile; questa sua scoperta venne riconosciuta solo dopo lo sviluppo della biologia molecolare: dovette aspettare ben 42 anni per vedere riconosciuti i suoi meriti nel 1982.

            In molti casi non c’è proprio stato il riconoscimento ufficiale del lavoro delle donne scienziato. Quattro i casi più clamorosi. Quello di Jocelyn Bell vide scippato il Nobel dal suo direttore del dipartimento di astrofisica, Antony Hewish, al quale fu attribuito il merito della scoperta delle “pulsar”, stelle di neutroni in rapida rotazione, che invece erano state identificate dalla Bell, che non fu neanche menzionata. Rosalind Franklin si era laureata a Cambridge in biochimica, si trasferì poi al King’s College di Londra dove trovò un ambiente estremamente ostile al gentil sesso: le donne non potevano accedere neanche alla sala ristoro. A lei spetta l’identificazione della struttura a doppia elica del DNA; stava per pubblicare la sua scoperta, quando il suo capodipartimento di biofisica Maurice Wilkins, dopo averle chiesto invano di vedere i risultati delle ricerche, riuscì a sottrarglieli mostrandole poi a Watson e Crick, con i quali più tardi, nel 1962, ricevette il premio Nobel per la scoperta della Franklin, quando ormai lei era morta. Un’altra storia coinvolge Albert Einstein, il quale nella teoria della relatività fu molto aiutato dalla moglie Mileva Mariã, attribuendosi per intero onore e gloria.  Mariã si occupava soprattutto dei problemi di matematica, nella quale contrariamente a quanto si pensi Einstein non era per nulla ferrato; in uno scritto si legge che Mileva avrebbe rinunciato a citare il proprio nome affermando “Siamo entrambi una sola pietra”: in tedesco “una pietra” si dice “ein stein”. Nonostante ciò, Einstein nel 1919 divorziò dalla moglie, da cui aveva avuto due figli, e dovette continuare a farsi aiutare da altri matematici per i calcoli in cui lui non era ferrato; alla moglie dette il ricavato del premio Nobel del 1922, con il quale lei si dedicò completamente al ruolo di casalinga. L’ultimo caso è quello della fisica austriaca Lise Meitner che interpretò il fenomeno della fissione nucleare incompletamente interpretato dal chimico Otto Hahn: la Meitner, mentre era rifugiata in Svezia perché ebrea, ripetè l’esperimento di bombardamento dell’uranio scoprendo che si divideva in due nuclei atomici di peso pressoché uguale. Il premio Nobel fu attribuito al chimico Otto Hahn nel 1944; alla fisica austriaca, dopo la morte nel 1968, è stato riservato il nome dell’elemento chimico 109 del sistema periodico sintetizzato nel 1982 e denominato nel 1997 Meitnerio.

 

Le tappe dell’emancipazione femminile

            Nelle società industriali le donne si trovano in una condizione di sostanziale sfruttamento, in molti casi fanno un doppio lavoro in fabbrica e in casa; le femministe erano divise su quale comportamento adottare: se lavorare in fabbrica per equipararsi agli uomini o se non farlo per evitare il doppio lavoro. Già all’epoca si discuteva se dare alle casalinghe un dignitoso salario per compensarle del lavoro svolto.

            Durante lo sviluppo della siderurgia vennero espulse dal processo produttivo perché i lavori erano ritenuti troppo pesanti e troppo qualificati; il sesso femminile, definito debole, non era ritenuto all’altezza. Il sistema sociale vigente è quello patriarcale, in cui l’uomo è la fonte del reddito. Al capofamiglia si deve sottostare senza nessuna opposizione, la subalternità è ribadita in tutti i suoi aspetti e nella tradizionale predominanza del marito, dotato di grande potere perché dispone del reddito della famiglia.

            Anche le prime famiglie industriali sono a carattere patriarcale, in quanto in fabbrica le donne vengono assunte se il marito è già occupato, e il marito è responsabile del loro comportamento sul lavoro.

            L’ideologia della famiglia borghese era detta “ideologia delle sfere separate”, cioè lavoro = sfera maschile e casa = sfera femminile. Le ripercussioni giuridiche di questa dicotomia non mancano: una legge americana di metà del XIX secolo affidava ai mariti poteri ampi: “il marito e la moglie sono una sola persona; questa persona è il marito” (Blockstore, 1853). Inizialmente le donne accettarono la dicotomia delle sfere separate, perché permetteva loro di essere le “signore del focolare” e di controllare le azioni degli uomini in generale. Successivamente ottennero di imporre una certa libertà nella vita di coppia, grazie al controllo delle nascite. Questa fu la fase del femminismo domestico, che richiese comunque molte lotte e trovò ostacoli negli uomini che sostenevano che la natura fisica e psichica delle donne non fosse in grado di sostenere lo sforzo dell’insegnamento e della attività intellettiva, per cui l’istruzione veniva considerata dannosa. Quando vollero praticare le stesse attività intellettuali degli uomini, trovarono opposizione in molti studiosi che adducevano motivazioni mediche e scientifiche: lo psicologo S. Hall riteneva le donne incapaci di svolgere attività intellettuali perché affette da deficienze psichiche che ne limitavano le capacità intellettive. Nonostante ciò nei paesi scandinavi ed anglosassoni le donne iniziarono a svolgere attività simili a quelle dei maschi, non il diritto o il commercio, difesi in modo corporativo dagli uomini.

            Le tappe riassuntive furono: ideologia delle sfere separate; collegi femminili; femminismo domestico; voler svolgere le stesse professioni degli uomini; emancipazione femminile. Le tappe furono più facili negli Stati Uniti; in Italia il movimento di emancipazione femminile fu soffocato dall’avvento del fascismo, che considerava le donne utili solo alla procreazione. Fu impedita l’attività di avvocato e quella in magistratura perché i presunti sbalzi di umore dovuti alle mestruazioni ne inficiavano la serenità di giudizio! Anche durante l’Assemblea Costituente un ampio fronte di forze politiche conservatrici guidate da Giovanni Leone volle ribadire l’ostracismo in magistratura per le donne. Ma durante le due guerre mondiali le donne si sono trovate ad occupare i posti di lavoro degli uomini in guerra: le donne russe guidavano i tram a Mosca e Leningrado, molte erano impiegate come telefoniste, telegrafiste, segretarie, infermiere, etc, per cui finita la guerra non era possibile non riconoscerne il ruolo e le capacità.

            La Nuova Zelanda fu il primo paese a dare il voto alle donne nel 1893. Nel 1946 un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri Ivanoe Bonomi concesse alle donne il diritto di voto, che fu esercitato per la prima volta il 2 giugno del 1946 per l’Assemblea Costituente. Il diritto di intraprendere a pieno la carriera in magistratura arrivò dopo alcuni anni, per le donne in polizia si deve aspettare gli anni ’70 e nell’esercito le soglie del 2000.

            Il riconoscimento dell’eguaglianza morale e soprattutto la completa emancipazione lo si ebbe dopo il 1968. Successivamente sempre di più le donne impegnate in politica, nell’insegnamento e negli studi accademici. Si deve però sottolineare come in Inghilterra, Norvegia, Francia e Filippine si sono avuti capi di governo donna, in altri paesi le donne ricoprono importanti cariche manageriali e di governo, mentre in Italia la situazione è diversa e lo è tuttora:

-          nel 1877 Anna Maria Mozzini presenta al Parlamento italiano la prima mozione per il suffragio alle donne; inascoltata ne presenterà un’altra nel 1906 con Maria Montessori e altre firmatarie: Giolitti definisce l’ipotesi del voto alle donne “un salto nel buio”;

-          nel 1946 la socialista Lina Merlin, la democristiana Maria Federici e le comuniste Nilde Iotti e Teresa Noce sono le quattro parlamentari del Comitato dei 75 che preparano la bozza della Costituzione;

-          nel 1951 Angela Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (all’Industria e al Commercio) nel VII governo De Gasperi;

-          la composizione del Parlamento italiano è stata composta, in media, da meno del 4% di donne;

-          solo 2 i presidenti della Camera: Nilde Iotti dal 1979 al 1992, Irene Pivetti dal 1994 al 1996;

-          il primo ministro donna si ebbe nel 1976, Tina Anselmi, dopo 20 anni dalla proclamazione della Repubblica; i ministeri assegnati alle donne, mai più di uno fino al 1991, furono sempre di carattere sociale, mai politico od economico;

-          solo a partire dal VII governo Andreotti si ebbero due donne, Rosa R. Jervolino agli Affari Sociali e Margherita Boniver all’Immigrazione; nel 1993 con il governo Ciampi le donne divennero tre, Rosa R. Jervolino alla Pubblica Istruzione, Fernanda Contri agli Affari Sociali e Maria Pia Gravaglia alla Sanità;

-          solo nel 2000 è stata eletta una donna alla guida di una regione italiana, Rita Lorenzetti in Umbria;

-          solo alla fine degli anni ’90 una donna è entrata a far parte della Corte Costituzionale, Fernanda Contri, nominata dal Presidente Scalfaro;

-          nel 1995 con il governo Dini la sig.ra Agnelli ebbe un ministero di grande peso, quello degli Esteri; con il I governo D’Alema nel 1998 Rosa R. Jervolino ebbe il ministero dell’Interno; in questo Governo c’erano ben sei donne ministro: oltre alla Jervolino, Rosy Bindi, Giovanna Meandri, Livia Turco, Laura Balbo e Katia Bellillo;

-          nell’attuale Governo ci sono ancora sei donne su un totale di 26 ministri, il 23%: Livia Turco alla Salute, Linda Lanzillotta agli Affari regionali, Emma Bonino al Commercio Estero e Affari europei, Rosy Bindi alla Famiglia, Giovanna Melandri allo Sport e giovani, Barbara Pollastrini alle Pari opportunità.

 

La medicina per le donne

            Diverso è sempre stato anche l’atteggiamento nei confronti della cura delle donne. La percezione del rischio cardiovascolare delle donne è ancora scarsa, sulla prevenzione e i controlli si insiste ancora poco, sembra si ritardi anche di più nel rivolgersi all’ospedale per sospetto IMA o per ictus. Questa sottovalutazione sarebbe presente non solo a livello della popolazione generale, ma anche di approccio medico-sanitario con un diverso atteggiamento diagnostico e terapeutico e un minor peso dato a prevenzione e educazione nei confronti del sesso femminile. Ad esempio si è potuto constatare che le Linee Guida della American College of Cardiology sull’infarto non sono applicate negli uomini e nelle donne perfettamente alla stessa maniera, anche se la popolazione femminile in realtà è più anziana. Questo nonostante dovrebbe essere necessaria una maggiore attenzione al sesso femminile in cui la mortalità per malattia cardiovascolare è maggiore (53% contro 43%) e anche maggiore la co-morbidità; le coronaroventricolografia sono eseguite di meno nelle donne, su 1.200.000 procedure di angioplastica coronaria eseguite annualmente negli USA solo il 33% sono effettuate sulle donne, così come vengono prescritte di meno terapie antiaggreganti e statine. Ancora la valutazione di alcuni test funzionali non tiene conto di diversità fisiologiche tra uomini e donne: ad esempio l’uptake del O2, usato come uno dei parametri funzionali utili ad avviare i pazienti al trapianto cardiaco, dimostra che le donne hanno, a parità di esercizio fisico, minore consumo di O2 e una migliore sopravvivenza per qualunque livello di attività fisica, il che determina minore necessità di usufruire del trapianto.

            Anche la ricerca medica è condizionata dal genere. Da sempre la medicina si è concentrata sulla fisiologia maschile, modello su cui viene calibrata prevenzione, diagnosi e terapia. Anche nei casi di malattie che colpiscono in uguale misura donne e uomini, i farmaci sono testati prevalentemente su individui di sesso maschile. Le conseguenze sono preoccupanti: si stima che le donne abbiano un rischio di reazioni avverse da farmaci superiore del 50% rispetto agli uomini e un maggiore rischio di morte per diagnosi errate o sottovalutazione dei sintomi.

 

Le donne nella letteratura medica e nella carriera professionale oggi

            Numerose autorevoli riviste scientifiche hanno recentemente affrontato il problema delle donne medico nel mondo scientifico e accademico. Da queste prendiamo alcuni interessanti spunti di riflessione. Nonostante la partecipazione delle donne nella professione medica sia aumentata negli ultimi quaranta anni, rimane una notevole disparità nella partecipazione al mondo accademico. Nella letteratura scientifica degli ultimi 35 anni c’è stata maggiore partecipazione solo in alcuni ambiti. Una recente revisione in proposito pubblicata dal New England Journal of Medicine ha messo in evidenza come la proporzione di donne primo autore di pubblicazioni scientifiche sia salita dal 5.9% del 1970 al 29.3% nel 2004, la proporzione di “senior authors” donne dal 3.7% al 19.3% nello stesso periodo. Ma nel dettaglio la proporzione è aumentata in modo sensibile solo in alcune riviste: in Obstet Gynecol da 6.7 e 6.8% rispettivamente a 40.7 e 28%, in J Pediatr da 15 e 4.3% a 38.9 e 38% rispettivamente, ma è rimasta bassa nella produzione scientifica chirurgica, dove in Ann Surg si passa da 2.3 e 0.7% a 16.7 e 6.7% nel 2004. Ciò nonostante nel 2004 la percentuale di donne autori di editoriale a richiesta nel NEJM era 11.4% e nel JAMA 18.8%.

            Nello stesso numero del NEJM un editoriale, questa volta scritto da donne medico, afferma che negli USA nel 2005 solo il 15% dei full professor e solo l’11% dei direttori di dipartimento era donna. Il perché di questo gap tra crescita esponenziale delle donne alla partecipazione del mondo lavorativo medico e il minor successo nel mondo accademico rimane non chiaro; probabilmente ci sono sia barriere istituzionali verso il successo e sia differenze di sesso nei confronti delle scelte di vita e di carriera. Comunque ancora una volta siamo di fronte al fatto che, detto banalmente, le donne possono lavorare, anzi oggi è bene che lavorino per portare a casa il secondo stipendio, anzi ammettiamo pure che lavorano bene, ma quando pensano di poter richiedere il giusto riconoscimento della propria attività si chiudono tutte le porte! Addirittura è documentata tra i membri della facoltà una minore retribuzione a parità di esperienza e di ruolo accademico. Sicuramente ci sono difficoltà oggettive, quali la quasi impossibilità di una donna con famiglia di dedicare le 60-70 ore settimanali necessarie normalmente per raggiungere il successo nel mondo accademico.

            Il British Medical Journal ha recentemente esaminato la situazione nel Regno Unito: nel 1983 le donne occupavano complessivamente il 23% dei posti, nel 2003 la percentuale è salita al 35%; i “consultants” sono saliti dal 12% del 1983 al 24% del 2003 e al 25% del 2004. Le donne rispondono del 39% dei consultants oggi e del 44% dei “senior house officers”; permane la stessa distribuzione, con una prevalenza di specialiste in pediatria, psichiatria e in genere specialità mediche e assenza in quelle chirurgiche. Anche la maggior parte di queste donne considera stressante l’ambiente di lavoro nel senso di rapporti interpersonali e conflitti con i manager e considera importante la vicinanza del luogo di lavoro e la mobilità geografica spesso richiesta ai consultant. Le donne consultants possono mostrare tappe diverse della carriera: il picco in gioventù, la discesa nel periodo medio, un potenziale picco nell’età più matura: le donne non cedono dopo la nascita dei figli, come molti credono, ma continuano a lavorare part time. Il lavoro conclude dicendo che la professione medica si è adattata lentamente al fatto che le donne da circa 10 anni costituiscono più della metà degli studenti in medicina; tuttavia le donne sono solo circa un terzo dei medici ospedalieri e di medicina generale; le giovani donne medico trovano stressante conciliare la vita e il lavoro; le donne medico hanno da offrire di più nella seconda parte della carriera e non si dovrebbe impedire questo traguardo con rigide tappe della carriera; infine le donne dovrebbero essere meglio supportate nel mondo accademico.

            Già due anni fa un’altra autorevole rivista, Annals of Internal Medicine, si accorgeva che “When most doctors are women: what lies ahead?”, ed inizia dicendo, quasi con terrore, che la “professione medica si sta femminilizzando”, e quindi considera le potenziali conseguenze positive o negative di un mondo medico a predominanza femminile. Ci si potrebbe domandare perché dovrebbero esserci conseguenze, anzi, usando il  parametro in genere usato dal mondo maschile, si dovrebbe dire che le “conseguenze” dovrebbero essere solo positive! Nei riguardi del rapporto medico paziente, gli autori ritengono oggi prioritaria la centralità del paziente e la sua la presa in carico da parte del medico, ruolo che comprende la capacità di empatia, di comprensione, la capacità di risposta a bisogni, valori e preferenze espresse dal paziente stesso. In questa definizione sono insite due affermazioni: il medico dovrebbe valutare ogni paziente attraverso un processo decisionale teso a stabilire il programma di cura e dovrebbe dimostrare sensibilità emozionale in ogni circostanza. Le evidenze suggeriscono che le donne sono più dotate nel soddisfare entrambi questi elementi basati sulla centralità del paziente nelle loro relazioni interpersonali con i pazienti, sono più capaci degli uomini nel coinvolgere i pazienti come partecipanti attivi del processo di cura illustrando e discutendo le opzioni di terapia, usano tipicamente uno stile democratico di comunicazione che facilita lo spirito di collaborazione; fedeli al principio della centralità della “cura del paziente”, in loro lo stile di comunicazione tende ad essere più sensibile non solo alle problematiche mediche ma anche a quelle emozionali. Nonostante questi aspetti positivi della comunicazione, gli studi non mostrano consistente maggiore soddisfazione da parte dei pazienti con le donne medico.

            La tendenza delle donne medico a sostenere la centralità del paziente ha importanti implicazioni nella professione. In primo luogo le donne sono più pronte a recepire i nuovi criteri di valutazione delle competenze: gli standard di servizio proposti dall’Accreditation Council for Graduate Medical Education ora richiedono che i medici dimostrino effettiva capacità di comunicazione, che le donne medico effettivamente hanno. In secondo luogo gli studi hanno dimostrato che la centralità della comunicazione medico paziente può determinare miglioramento di alcuni outcome, quali l’aderenza alla terapia, la soddisfazione del paziente. Al contrario la femminilizzazione della forza lavoro medica comporta alcuni problemi nella cura dei pazienti maschi: alcuni preferiscono medici dello stesso sesso o etnia, e in questo caso gli outcomes sono migliori, ma comincia a diventare difficile trovare un medico maschio in alcune strutture di prima assistenza.

            Ancora, molto spesso la competenza multidisciplinare delle patologie richiede l’approccio di un team, in cui è richiesta una leadership, e le donne sono più pronte a proporre un simile approccio; sono anche più capaci di far sviluppare le capacità degli altri membri del team, sono interessate ai problemi personali del loro staff, per cui la risultante è una maggiore efficienza del team. Le evidenze suggeriscono che l’approccio di un team nel management di una malattia cronica è associato a migliori outcomes.

            Le donne stanno effettivamente cambiando la professione medica. Gli effetti si vedono nel rapporto famiglia-lavoro, nella posizioni di leadership e nella collocazione della professione nella società. Le donne nella medicina hanno stabilito nuovi criteri e modi per bilanciare le responsabilità del lavoro e della famiglia. E’ opinione diffusa che sia il mondo accademico medico sia il sistema sanitario pubblico debbano rispondere anche alle esigenze della loro forza lavoro. Si può speculare che l’aumento progressivo della presenza femminile continuerà a spingere le forze politiche verso il raggiungimento di una flessibilità che possa bilanciare la vita personale e professionale, aiutando sia le donne sia gli uomini medico nelle responsabilità nei confronti dei propri figli, dei propri genitori e anche nei confronti di sé stessi.

            Le donne sono comunque poco rappresentate nelle posizioni di leadership del mondo accademico ed organizzativo medico, come accade nelle professioni legali e nel mondo economico. Alcuni studi affermano in realtà che le donne spesso occupano meno piacevolmente rispetto ai maschi posizioni di leadership, nonostante abbiano i numeri per farlo non lo scelgono; spesso ritengono di non avere successo nella competizione o non vogliono assumere il ruolo in un contesto in cui la maggiore rappresentazione è maschile. Ma poiché la proporzione delle donne medico è in crescita, si dovrà incoraggiare e supportare le donne nella leadership.      

            In questo atteggiamento di rinuncia a incarichi di maggiore responsabilità, si può vedere, a mio avviso, la coscienza del peso più gravoso che questo comporterebbe per la donna rispetto all’uomo, la coscienza della lotta quotidiana che è spesso ancora oggi necessaria per assolvere i compiti di un incarico superiore in un contesto di occulta disapprovazione. Spesso le donne cedono. Non a caso una ricerca pubblicata sul Journal of Epidemiology and Community Health ha evidenziato come, benché il rischio assoluto di suicidio tra i due sessi sia lo stesso, l’incidenza di suicidio tra le donne medico è significativamente più alta rispetto ai medici maschi, con maggiore incidenza in anestesiologia, medicina generale e psichiatria.

            Se si guarda poi alla soddisfazione delle donne medico nei confronti della loro professione, è possibile constatare come le donne debbano impegnarsi di più rispetto agli uomini, da loro si pretende la “perfezione” sul lavoro e la massima applicazione; non è loro consentito sbagliare, non nel senso dell’errore medico, ma in senso generale e comportamentale: se l’uomo medico sbaglia, rientra in una possibilità comprensibile di errore, se la donna medico sbaglia, sbaglia perché è donna. Non ci sono parametri di valutazione uguali, e per raggiungere lo stesso livello professionale le donne devono impegnarsi molto di più, tralasciando altri aspetti della loro vita personale. Le donne che raggiungono posti di comando più spesso non hanno una famiglia.

            Sembra che lavorare molte ore al giorno induca le donne più degli uomini a comportamenti non consoni ad una buona salute, come mangiare spesso degli snacks ad alto contenuto di grassi e zuccheri, fumare di più rispetto ai colleghi maschi, prendere caffè e ridurre l’esercizio fisico; l’unico aspetto positivo per entrambi è costituito dalla riduzione del consumo di alcool. La ragione di questo comportamento sembrerebbe determinata dallo stress: lo stress mentale piuttosto che lo stress fisico indurrebbe i cosiddetti “emotional eaters” alla scelta di snacks meno salutisti. E’ probabile che le donne avvertano come più stressanti le situazioni di confronto e di rapporto interpersonale continuo negli ambienti di lavoro.

            Un aspetto controverso circa la femminilizzazione della forza lavoro medica è il declino della professione. In Russia ed Estonia, dove la medicina è sempre stata appannaggio delle donne, questa professione è considerata una occupazione di basso livello. E’ sbagliato concludere che una simile perdita di prestigio risulterà nel Nord America senza peraltro prendere in considerazione il contributo di diversi fattori culturali, politici e storici tra le due società. Negli ultimi venti anni, mentre saliva il numero delle donne medico, nell’opinione pubblica è caduta la considerazione della professione medica.

 

La situazione italiana

            I numeri confermano il trend in crescita, con molta fatica. Nel 2004 il 60% degli iscritti alle varie scuole di specializzazione era donna e il numero è in salita. Su 10.000 primari solo 1.000 sono donne, il 10%, mentre 4.000 su 15.000, il 26,67%, occupano le dirigenza di strutture semplici. Le proiezioni dicono che anche in chirurgia le donne saranno la maggioranza, ma le iscritte alla Associazione dei chirurghi ospedalieri italiani (ACOI) sono 515, un decimo dei maschi e solo dodici ricoprono il ruolo di primario. Ancora meno le iscritte alla Società Italiana di Chirurgia: 268, di cui solo 5 professore ordinario. Si sente spesso dire negli ambienti che le “donne vanno bene solo per la chirurgia di superficie: ernia, mammella, tiroide”, oppure che “è una donna, non è in grado di prendere decisioni rapide”, oppure per sottolineare una situazione ritenuta paradossale “pensa, ho anch’io una donna chirurgo nella mia equipe”; un anziano chirurgo al quale era stato prospettato l’inserimento di una assistente nello staff ha detto “portatemi una scimmia al guinzaglio, ma una donna no”.

            Gli eletti al Comitato centrale, al Collegio dei Revisori e alla Commissione per gli iscritti all’albo degli odontoiatri, della Federazione nazionale degli ordini dei medichi chirurghi e degli odontoiatri sono tutti uomini. Il neo presidente della Fnomceo ha detto che la “scelta dei nomi è stata ponderata e condivisa”; eppure le donne medico sono in crescita, ma forse l’Ordine dei Medici non se ne è accorto, nonostante a dicembre 2005 le donne medico iscritte all’Albo erano il 33,9% del totale!

            Le donne sono però condannate alla perfezione, per non soccombere devono dimostrare di valere il doppio degli uomini; devono acquisire una altissima professionalità

 

Conclusioni

            Personalmente non credo si debbano fare conclusioni dopo questa rivisitazione del ruolo delle donne nella storia e nella storia della medicina; i fatti credono parlino e si commentino da soli.

            A me sembra comunque fondamentale un concetto. Esiste, a mio avviso, una differenza nell’approccio al ruolo del medico tra gli uomini e le donne, almeno nella maggior parte dei casi: gli uomini sono presi dal ruolo, diventano il ruolo; le donne immergono se stesse nel ruolo, lo personalizzano. Ancora, gli uomini medico sono stereotipi, sono il medico; le donne medico sono le donne medico! E le donne applicano lo stesso atteggiamento in tutti i campi lavorativi. In una recente intervista su un settimanale “femminile” alcune donne parlamentari si sono così espresse: l’on. Livia Turco, Ministro della Salute, afferma: “Ho lavorato tutta la vita come una dannata, quasi sempre vestita di nero. Ma invecchiando (qui la si potrebbe contestare visto che ha 51 anni) mi sono resa conto che ero stata spietata con me stessa. Ora sono dimagrita e mi piacciono il turchese e il fucsia”. Ancora l’on. Barbara Pollastrini, Ministro per i Diritti e le Pari Opportunità, afferma che  “Le donne, anche nei momenti più difficili, non rinunciano ad avere un aspetto gradevole. L’ho imparato dai racconti e dai film sulla storia recente, quando non avevano da mangiare ma si scambiavano pezzetti di rossetto. Sembra un discorso leggero, ma in questo gusto di sé, in questa voglia di non rinunciare, c’è il coraggio di guardare al futuro tipico delle donne”. In ultimo l’on. Chiara Moroni afferma che “La carta vincente delle donne non è mimetizzare la femminilità, ma valorizzarla per sentirsi più autonome e più sicure”.

            L’ultima diapositiva vi mostra un’utopia ma non troppo, visto che comunque è realtà, non vicina a noi, ma comunque possibile: la National Library of Medicine in questo sito ha deciso di celebrare le donne medico raccontando il loro lavoro e il loro contributo! C’è da meravigliarsi? Sì, solo perché è una realtà a cui non siamo abituati, ma nessuno si è mai meravigliato del contrario, cioè di vedere celebrare solo uomini!

            Ma il concetto fondamentale è che, indipendentemente dal genere, dalla razza o da altri aspetti ognuno può dare il proprio valido contributo nell’ambito della scienza medica. La nostra realtà è piuttosto quella che vi mostro in questa diapositiva, in cui le donne medico rimarranno ad vitam, vista la riforma delle pensioni, a lavorare, lavorare …

            Bene, a questo punto non mi resta che formulare i ringraziamenti di rito; ma non sono ringraziamenti formali. Innanzi tutto vorrei ringraziare quattro persone, rigorosamente in ordine alfabetico e rigorosamente due donne e due uomini, non in ossequio alla par condicio, è un fatto del tutto casuale, potevano essere quattro uomini o quattro donne ed era la stessa identica cosa, le quali hanno dato il loro contributo a questa prolusione:

1. Maria Vittoria Ammaturo, Accademico di questa Accademia, con la quale avrei dovuto condividere questa Prolusione, ma da brava pensionata aveva programmato un viaggio per questa data, ed in effetti è assente questa sera; Maria Vittoria mi ha comunque fornito una parte della documentazione;

2. Vito Cagli, Accademico di questa Accademia, indiretto responsabile di questa Prolusione, perché alcuni mesi fa nel Consiglio Direttivo dell’Accademia, quando si doveva decidere a chi affidare la Prolusione, ha detto che “una signora non aveva mai parlato”;

3. Roberto Canova, Accademico di questa Accademia, mio ex-primario, il quale da quando è in pensione viaggia in internet, per cui mi ha fornito buona parte della documentazione;

4. Mara Gasbarrone, mia sorella, dottore in Scienze Politiche, a cui devo i dati statistici.

            Ringrazio inoltre il Consiglio Direttivo dell'Accademia per aver accettato che "una signora" parlasse, soprattutto che parlasse di questo argomento, ed infine ringrazio tutti gli intervenuti, che hanno avuto la pazienza di ascoltarmi fino ad ora!

 

 

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