LA DIAGNOSI

Come è cambiata? Perché è cambiata?

 

Vito Cagli [*]

 

 

     Anche senza andare troppo indietro nel tempo, ma limitandoci a prendere come punto di riferimento la seconda metà del XIX secolo, non appare dubbio che uno dei cambiamenti più rilevanti in ambito medico sia costituito dal modo di giungere alla diagnosi e dalla maniera stessa in cui la diagnosi viene concepita e formulata.

      Era il 1893 quando Guido Baccelli scriveva nell’articolo di apertura del primo numero del «Policlinico Sezione Medica»: «La diagnosi esatta è la sovrana potenza del Clinico, perché la diagnosi esatta è la somma necessità della cura».

    A metà dell’Ottocento la diagnosi era, non diversamente da oggi, concepita come l’identificazione di una precisa entità nosografia. Queste entità  però, e qui sta la differenza con  il nostro modo di pensare, erano intese ancora in modo non troppo differente, da come soltanto un centinaio di anni prima, nel 1763, François Boissier de Sauvages le aveva suddivise in 10 classi per un totale di 2400 specie [1]. La malattia, insomma, non aveva ancora pienamente raggiunto l’odierno statuto di costrutto mentale, ma rimaneva ancora, almeno in parte, invischiata in una concezione ontologica che la accostava ad una specie botanica o zoologica.  Questo fatto comportava il concentrarsi dell’attenzione del medico su questo “ente”, la malattia, lasciando in ombra il vero protagonista del dramma clinico, cioè il malato.

    Ma poi, a distanza di soli 13 anni da quanto scritto dal suo maestro Baccelli, Augusto Murri, nella lezione di apertura al corso di clinica medica dell’anno 1906-1907 nell’ateneo Bolognese, affermava:

 

Disse benissimo il mio illustre maestro Baccelli: l’esatta diagnosi è la sovrana potenza del pratico.  Però non bisogna intendere per diagnosi il battesimo affibbiato a un malato.

Chi di  voi non conosce qualcuno di questi sapienti che pretendono di far diagnosi senza pur aver veduto l’infermo? Uno dirà: datemi una boccetta d’orina e vi dirò la diagnosi; l’altro dice: fatemi fare una coltura del sangue e vi dirò la diagnosi.  Pretese compassionevoli nella loro ignoranza!  È inutile, che vi ripeta, che costoro sapranno dire qualche cosa della malattia, ma la diagnosi esatta, che dà al pratico quella potenza, non può essere stabilita che da chi sa sviscerare tutto intero il complesso dei fatti, che si intrecciano nell’ammalato» [2]

   

     Murri vede già con chiarezza il pericolo della nascente tecnologia applicata alla diagnosi medica e afferma la necessità che  la diagnosi più che essere l’identificazione di una “specie biologica” consista nel riconoscimento dell’insieme delle particolarità che contrassegnano un processo morboso in un determinato soggetto con le caratteristiche che gli sono proprie. Comincia perciò a realizzarsi  un fondamentale cambiamento: lo spostamento dell’attenzione dalla malattia al malato.

     E questo cambiamento porta come conseguenza ad una frammentazione di molti quadri morbosi.  Si veda ad esempio quanto succede del morbo di Bright agli inizi del Novecento con Volhard e Farr: un’ unica malattia si divide in quattro forme diverse (glomerulonefrite diffusa, nefrite a focolaio, nefrosi, sclerosi) e ciascuna di esse può “sconfinare” nelle altre, condividendone questo o quel carattere [3]. Ancora più evidente diverrà questo aspetto nella classificazione moderna delle glomerulonefriti che, sulla base di criteri diversi, tra cui, importantissimo quello istobioptico, vengono suddivise in ancora più numerose forme diverse [4]

   La malattia “specie botanica” di Boissier de Sauvages si accordava abbastanza con il concetto di malattia che in quegli stessi anni Giovan Battista Morgagni proponeva con il suo De sedidus et causis morborum per anatomen indagatis (Venezia, 1761). La concezione morgagniana, incentrata sulla sede e sulla causa, presuppone un organo interessato da alterazioni riscontrabili al tavolo anatomico e determinate da un agente causale noto o supposto. È comunque un qualcosa di tangibile e ben definito, solidamente ancorato alla lesione d’organo e che ancora di più lo diviene nella seconda metà dell’Ottocento, dopo l’introduzione della dimensione microscopica con la “patologia cellulare”  di Rudolph Virchow. 

       Ma, successivamente, si assiste alla nascita di malattie nuove e  diverse, senza una sede anatomica precisa e senza una separazione netta con la normalità.  Tipico esempio di queste ultime è l’ipertensione arteriosa essenziale che, sotto un diverso profilo, viene anche etichettata con il termine di “fattore di rischio”.  Siamo qui di fronte a un qualcosa che non è malattia nel senso in cui, con Morgagni, questa condizione veniva definita (lesione d’organo e causa), ma che è piuttosto il “preannuncio” di malattie possibili, anzi più probabili, in quanti di quel fattore di rischio sono portatori.  Dalla certezza di una malattia in atto siamo così passati alla “probabilità” di un evento morboso futuro.  E tuttavia la stretta parentela tra malattia in senso stretto e fattore di rischio risiede nel fatto che l’aspettativa di vita è ridotta sia nell’uno che nell’altro caso, anche se con una attendibilità diversa della previsione, in genere maggiore nel primo rispetto al secondo caso. Senza poi dimenticare che tanto la malattia “classica”, quanto il fattore di rischio richiedono entrambi, assai spesso, l’instaurazione di una terapia.

     L’attenzione al malato, piuttosto che alla malattia ha inoltre condotto alla valorizzazione di quelle espressioni morbose che il malato stesso considera come le più importanti, quelle condizioni che lo limitano maggiormente, che gli impongono una maggiore sofferenza.  Non si trascura più  la cura del sintomo, non ci si rivolge più soltanto alla malattia e ai suoi meccanismi etiopatogenetici, ci si occupa, insomma, anche del benessere del paziente.  Si è giunti così a proclamare, con un certo eccesso «la fine dell’era della malattia» [5], espressione che, a nostro avviso, non va presa alla lettera, ma indica una tendenza che consiste, fondamentalmente, nella rivalutazione del punto di vista del malato.

     Dovrebbe risultare chiaro, a questo punto, il lungo cammino che ci ha portato dalla diagnosi centrata sulla malattia, intesa come quadro ben definito, alla diagnosi centrata sul malato, con tutte le variabili e le incertezze che finiscono per comporre un insieme complesso e con la individuazione di quel “preannuncio di malattia” che sono i fattori di rischio.    Un tale  profondo mutamento di quanto viene compreso entro il concetto di malattia, se non ha rinnegato quello classico fondato sull’opera di G.B. Morgagni,  lo   ha  però ridotto ad una soltanto delle molteplici tipologie in esso incluse.

    A questo cambiamento del concetto di malattia non poteva non corrispondere anche un profondo mutamento del concetto di diagnosi.

     Se la diagnosi è cambiata, ciò non è avvenuto, però, soltanto a causa del mutamento del concetto di malattia. Riteniamo di poter indicare altre sei cause, che ora passeremo ad illustrare brevemente.

 

I.                   Una prima causa va certamente individuata nella progressiva introduzione della tecnologia in medicina.  Si affaccia così il quesito di “chi faccia che cosa”.  Già trentacinque anni or sono Carlson [6] si domandava se la diagnosi di una dislipidemia riguardasse il plasma o il paziente (plasma or patient?) e se ad effettuarla fosse  l’indagine elettroforetica, che allora si effettuava su carta, o il medico (paper electrophoresis or physician?): «il problema delle 4P».  Un problema che esemplifica assai bene la confusione in cui ci muoviamo e che rende difficile distinguere, come già aveva temuto Murri,  se diagnostichiamo non un malato, ma soltanto un unico suo aspetto, rilevato attraverso una tecnica che rischia sempre di assumere il carattere del testimone oculare di un fatto cui il medico non ha assistito in prima persona e che egli può conoscere soltanto attraverso questo testimone.  E, come è facile comprendere, quello di cui ci siamo avvalsi è soltanto uno degli innumeri esempi che si potrebbero addurre.

     Un’altra importante conseguenza delle odierne possibilità tecnologiche di studio del malato è la rottura metodologica che esse minacciano di introdurre.  Taluni esami sembrano fornirci dati che vanno al di là del valore di un puro segno: sembrano offrirci bella e scodellata la diagnosi.  Penso alle ricerche “di immagine” e soprattutto alle biopsie.  La malattia, insomma, non verrebbe più inferita dai sintomi e dai segni, ma sarebbe direttamente “visibile” là, in quei reperti cosicché la diagnosi diverrebbe  il diretto portato  di quanto una ricerca di immagine o una biopsia ci mostrano.  Anche se è vero che questo tipo di indagini sono spesso di fondamentale importanza esse non sono la diagnosi, ma restano sempre e comunque soltanto un elemento che insieme al quadro clinico e ad altri eventuali  esami contribuiscono (spesso in maniera fondamentale: desideriamo ripeterlo) alla costruzione della diagnosi.

II. Nel contesto di una società contemporanea in cui giudici, assicurazioni, mezzi di informazione, reclamano da parte del medico  esattezza ed efficienza sempre maggiori, la risposta a tali esigenze da parte della scienza medica è stata quella di proporre criteri precisi e definiti di diagnosi, non di rado fondati su punteggi che determinerebbero la soglia al di sopra della quale essa diviene probabile o addirittura  certa.  È nato così un modo quasi meccanico di impostare la diagnosi, che, se ha certamente molti limiti, ha tuttavia il pregio di obbligare ad un severa critica delle proprie ipotesi diagnostiche

III. L’ideale in medicina sarebbe: “una causa, una lesione, una malattia, una diagnosi”.  Ma le cose vanno sempre di meno  in questo modo.  L’invecchiamento della popolazione porta ormai spesso all’osservazione medica pazienti affetti da molteplici condizioni morbose.  Alcune di esse possono essere “inattive”, cioè soltanto esiti, anche se non mancano pazienti per i quali ciò che si riteneva un puro dato anamnestico si rivela poi importante per la malattia attuale.  Ma in molti casi coesistono e si intrecciano  processi morbosi diversi che non di rado si potenziano l’un l’altro creando sempre più spesso situazioni conflittuali sotto il profilo della terapia.  Allora la diagnosi rischia di divenire un elenco, anche molto lungo, di malattie diverse e spesso nella pratica si è costretti ad omettere qualcosa seguendo criteri difficilmente codificabili.

IV.              Anche la terapia ha esercitato un certo ruolo di disturbo nella diagnosi.  Un tempo era l’ “apriamo e vediamo” di non poche situazioni chirurgiche che metteva insieme diagnosi e terapia.  Oggi è l’affidamento al potere di certi farmaci ad indurre, nella pratica, a scavalcare la diagnosi, anteponendole la terapia.  Si pensi ai tanti processi febbrili indiagnosticati curati con antibiotici, o alle tante manifestazioni dolorose muscolo-scheletriche tacitate con l’impiego di FANS o di cortisonici.  Non mancano purtroppo casi in cui il misconoscimento o il ritardo della diagnosi che ne deriva si rivela carico di conseguenze negative per il malato.

V. C’è  inoltre  da  considerare  che i confini tra malattia e non- malattia e quello, che non equivale al precedente, tra malattia e salute non sono sempre facili da tracciare. Nel 1965 Meador introduceva il concetto di  “non-malattia”, definibile come «una condizione di salute che per alcuni aspetti può far porre erroneamente la diagnosi di un determinato processo morboso» [7] .  Ma è soprattutto il modello fuzzy[†] della diagnosi, introdotto in medicina da Zadeh nel 1965,  che meglio rappresenta l’incertezza del contesto diagnostico, adottando espressioni linguistiche piuttosto che quantitative [8].    Si supera così  il  concetto che o si è sani, o si è ammalati (rispetto a quella determinata malattia) e si accetta la possibilità di essere “un po’ ammalati” [9].         La logica fuzzy è applicabile, sia pure recuperando  espressioni numeriche, ad  alcune  condizioni morbose    identificabili esclusivamente con la variazione quantitativa di una determinata    caratteristica (p. es. la pressione arteriosa o la glicemia), in cui il confine tra normale e patologico è difficile da tracciare.    Così è accaduto che per l’ipertensione arteriosa si sia sentito il bisogno di introdurre categorie come la “pre-ipertensione” (PA 120-139/80-89) [10], o come “pressione ottimale” (PA < 120/80) e pressione “normale-alta” (130-139/85-89) [11], tra le quali viene a situarsi la “pressione normale”.    Il normale sfuma dunque nel patologico e su questo confine si costruisce, con l’introduzione di categorie diverse, un “fuzzy set” in cui il confine tra normale e patologico diviene più “morbido”.    Questo fenomeno è ben visibile in psichiatria, per esempio nella schizofrenia, dove, almeno nell’interpretazione di alcuni autori, esiste «la possibilità di ritrovare nella personalità premorbosa del paziente atteggiamenti e meccanismi non dissimili da quelli propri della malattia conclamata» [12] e dove sono state introdotte categorie “intermedie” come “personalità schizoide” o “schizofrenia latente” [13]

VI. Va infine tenuto presente l’influsso dell’applicazione alla medicina di categorie logiche e dell’introduzione della Evidence-based Medicine (EBM) e di strumenti informatici.  L’applicazione  dello schema di Popper-Hempel-Oppenheim alla spiegazione/diagnosi fisiopatologia, e del teorema di Bayes  per un migliore valutazione probabilistica di sintomi e segni, l’analisi dell’argomentazione diagnostica, un lavoro approfondito sulla struttura induttiva e/o ipotetico deduttiva della diagnosi, condotti in questi ultimi anni da medici come Giovanni Federspil [14] e Cesare Scandellari[15]  o da filosofi particolarmente attenti agli aspetti metodologici della medicina come Dario Antiseri [16] e Massimo Baldini [17], non vanno  considerati tanto come “strumenti per fare”, quanto come “strumenti critici”, utili, cioè, ad esercitare una puntuale analisi del nostro modo di operare quando esaminiamo un paziente, quando riflettiamo sui dati raccolti e arriviamo a concludere una diagnosi.  È un mezzo per aiutarci ad acquisire una mentalità logica, per aiutarci a sbagliare di meno; è un esercizio intellettuale che dovrebbe migliorare la nostra capacità di pensare correttamente, di formulare ipotesi più attendibili, di acquisire certezze più fondate e al tempo stesso meno impermeabili alla falsificazione. Ma questa tendenza a ricorrere a categorie logico-statistiche è al tempo stesso un segno del malessere della medicina di fronte alla complessità dei problemi diagnostici che spesso la clinica propone.  In questa stessa direzione si è affermata  l’EBM, in quanto metodo che pretende di fondare la diagnosi, come la terapia, su dati il più possibile certi, quali risultano dalle indagini più ampie accurate e metodologicamente corrette consegnate alla letteratura scientifica internazionale.  Non bisogna però dimenticare i limiti di una tale impostazione, sia perché non sempre disponiamo di sicure “evidenze”, sia anche perché esse vanno applicate in ogni caso con sano spirito critico [18]. Anche il ricorso a sistemi esperti e all’ausilio del computer [19] trova per ora solo episodiche applicazioni al raggiungimento della diagnosi, ma testimonia lo spirito dei tempi: rapidità, fiducia nella tecnica e, purtroppo, anche eccessiva delega  alle macchine da parte dell’uomo. 

      Sullo sfondo è già una realtà, perentoria e pervasiva, la diagnosi    genetica.  La sua diffusione potrà cambiare profondamente il nostro modo di accostare l’uomo sano e malato:  ci porterà, forse,  ad un modo diverso di percorrere il cammino verso la diagnosi.  Ciò che dobbiamo augurarci, ad ogni modo, è che, quali che possano essere in futuro i cambiamenti nella scienza e nell’arte di diagnosticare (come in quella di curare), l’uomo capace di pensare mantenga un suo ruolo centrale, perché soltanto la sua riflessione costituisce, in definitiva, la migliore garanzia per una medicina tecnicamente corretta ma anche  umanamente accettabile.


 

[*] Libero Docente Università di Roma “La Sapienza”

[†] Il termine inglese “fuzzy” può essere tradotto con “sfumato”


 

bibliografia

 

[1] Sauvages de Boissier F.  Nosologia metodica sistens morborum classes iuxta Sydenhami mentem et botanicorum ordinemHeredis Nicolai Pezzana, Venezia 1772. (È questa l’edizione consultabile nella Biblioteca Lancisiana; la prima edizione è: Amsterdam 1763).

[2] Murri A. Cure e Ricette. In Idem Lezioni di Clinica Medica. Società Editrice Libraria, Milano 1919, pp. 113-4.

[3] Volhard F. Malattie renali ematogene bilaterali (Morbo di Bright). In  Mohr L., Staehelin R. (per cura di) Trattato di Medicina interna. Ed it. Società Editrice Libraria, Milano 1924, Vol. 3, Parte III, pp.1-549.

[4] Churg J., Sobin L.H. Renal disease: classification and atlas of glomerulare diseases. Igaku-Shoin, Tokio-New York, 1982.

[5] Tinetti M.E., Fried T.  The end of the disease era.  Am.J.Med. 2004;116:179-185.

[6] Carlson L.A. Plama or Patient? Paper –electrophoresis or Physician? The four- P problem in classification of hypelipidaemia.  Atherosclerosis 1970;12:181.

[7] Cagli V. L’interpretazione clinica degli esami biochimici.  Pozzi, Roma 19762 , p.254.

[8] Barosi G., Marchetti M., Liberato L. et al. Metodologia della diagnosi medica. In Negri M. (a cura di) La medicina: Progressi.  UTET, Torino 2002, vol I, pp. 3-47, in particolare pp.7-8.

[9] Grossi E. Il medico del XXI secolo tra  riduzionismo statistico, intelligenza artificiale e nuovo umanesimo.  MEDIC 2004;12 (1) :26-36.

[10] Chobanian A.V., Bakris G.L., Black H.R. et al.  The seventh report of the Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure.  JAMA 2003;289:2560-2572.

[11] Guidelines Committee 2003 European Society of Hypertension-European Society of Cardiology guidelines for the management of arterial hypertension. J. Hypertens. 2003; 21:1011-1053.

[12] Cancrini L., Ciani N. Schizofrenia: dalla personalità alla malattia. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1969, p.10.

[13] Pancheri P. Il problema della schizofrenia. In  Pancheri P. Cassano G.B. (coordinatori) Trattato Italiano di Psichiatria. Masson, Milano 1993, vol. 2, pp. 1240-1261.

[14] Federspil G. Logica clinica: i principi del metodo in medicinaMcGraw-Hill, Milano 2004.

[15] Scandellari C. La diagnosi clinica: Principi metodologici del procedimento decisionale.  Masson, Milano 2005

[16] Antiseri D. Epistemologia e logica della diagnosi clinica. In idem Ragioni della razionalità. I Proposte teoretiche.  Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pp793-891.

[17] Baldini M. Bibliografia di metodologia clinica. Edizioni Porziuncola, Assisi 1989.

[18] Antiseri A., Timio M.  La medicina basata sulle evidenze: analisi epistemologica. Edizioni Memoria, Editoriale Bios, Cosenza 2000, in particolare p.105.

[19] Colosimo A.  Supporti computerizzati alle decisioni diagnostiche: Dispense dell’insegnamento di biofisica canali III e IV Università di Rooma “La Sapienza”. 1999-2000 (on line).