LA STORIA NATURALE DEL CARCINOMA EPATOCELLULARE: DAI FATTORI MOLECOLARI DI ANGIOGENSI ALL’EVIDENZA DELL’IMAGING

 

Gian Ludovico Rapaccini, Nicoletta de Matthaeis, Maurizio Pompili, Giovanni Gasbarrini

Istituto di Medicina Interna e Geriatria, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

 

Epidemiologia

L’epatocarcinoma (HCC) è tra le neoplasie di maggiore interesse medico-scientifico in virtù della sua elevata incidenza e purtroppo altrettanto elevata mortalità. Nel 2002 è stato stimato che il carcinoma epatocellulare rappresenta la sesta neoplasia più comune al mondo, con un’incidenza pari a 626.000 nuovi casi/anno, e la terza causa di morte per cancro (1). I più elevati tassi di incidenza sono stati riscontrati nell’Africa sub-Sahariana, in Cina e nel Sud-est asiatico (più di 20.000 casi su 100.000 abitanti), mentre alcuni paesi mediterranei tra cui l’Italia, la Spagna e la Grecia, ed il Giappone, rappresentano delle aree ad incidenza intermedia, in cui vengono diagnosticati tra i 10.000 ed i 20.000 nuovi casi annui. America settentrionale e  Nord Europa, un tempo riconosciute come aree a bassa incidenza (con meno di 5.000 casi su 100.000 abitanti) (2,3), hanno assistito, nell’ultimo decennio, ad un progressivo aumento di incidenza e mortalità (4). La spiegazione di questo fenomeno è riconducibile all’aumento di incidenza, in questi Paesi, di epatiti croniche da virus dell’epatite B (HBV) e C (HCV) a causa di un incremento dei flussi migratori (5).

La sopravvivenza media globale dei pazienti affetti da epatocarcinoma è di 7 mesi ed è condizionata sia dal grado di disfunzione epatica che dallo stadio della neoplasia al momento della diagnosi.

 

Eziologia

Nei paesi a bassa e media incidenza, la maggior parte dei casi di HCC può essere attribuita alla epatopatia cronica da virus B (Asia ed Africa) e C (Giappone e Paesi Occidentali) che evolve in cirrosi con un’incidenza pari rispettivamente allo 0,5-6% ed 1-9% (6). Per quel che riguarda la patogenesi, mentre l’HBV-DNA è oggi ritenuto essere un agente mutagenico inserzionale non selettivo, capace di integrarsi nel genoma dell’ospite, determinando delezioni e riarrangiamenti cromosomici che conducono ad un’instabilità genomica di alcune linee cellulari (7), il virus dell’epatite C svolgerebbe un ruolo oncogenetico per la sua capacità di determinare flogosi cronica del fegato e, nel tempo, la cirrosi epatica (8). È infatti difficile ipotizzare un ruolo mutageno diretto del virus C, dal momento che si tratta di un virus ad RNA non dotato di transcriptasi inversa e pertanto incapace di integrarsi nel genoma epatocitario.

Nelle aree ad elevata incidenza, è nota inoltre l’importanza dei fattori ambientali e dietetici; in Africa ed Asia, ad esempio, l’HCC sembrerebbe essere correlato alla contaminazione dei depositi di riso, grano ed arachidi da parte dell’aflatossina, una micotossina prodotta dalla muffa Aspergillus Flavus, che sarebbe responsabile di un effetto carcinogeno diretto sul fegato per una mutazione sul codone 249 del gene oncosoppressore p53 con incremento, di circa tre volte, del rischio di sviluppare di HCC (9,10). Non deve pertanto meravigliarci il fatto che, in queste popolazioni, l’HCC si sviluppi abitualmente su fegato non cirrotico. Tuttavia, in alcune aree dell’Africa, il virus dell’epatite B e l’aflatossina possono agire come fattori co-carcinogeni (11). In molti paesi europei, in America ed in Australia, la maggior causa di  epatopatia cronica riconosciuta è l’alcool che tuttavia, sulla base delle evidenze cliniche o sperimentali, non sembrerebbe avere sul fegato un effetto carcinogeno diretto. Studi epidemiologici dimostrano infatti che l’alcool è capace di promuovere la carcinogenesi in maniera indiretta, in virtù di un effetto epatotossico dose-dipendente con un rischio maggiore di sviluppare HCC rispetto ad una popolazione di controllo. L’alcool sembrerebbe inoltre essere dotato di 1) attività immunosoppressiva, che faciliterebbe lo sviluppo dell’infezione di HBV ed HCV; 2) capacità di indurre cirrosi alcolica ed 3) effetto ossidativo, con conseguente impoverimento della riserva dei sistemi difensivi anti-ossidativi (12).

Il rischio di sviluppo di HCC nell'epatite cronica autoimmune è relativamente basso (0,2 % per anno) (13) mentre la cirrosi biliare primitiva (CBP) si associa ad un  incremento progressivo del rischio di sviluppare HCC in base allo stadio di malattia (ad esempio, l’incidenza di HCC nel caso di CBP in stadio IV, è pari al 3-5%) (14). Infine, per quanto riguarda gli estroprogestinici, non è stata ancora documentata, sino ad oggi, una diretta correlazione tra assunzione di estroprogestinici ed insorgenza di HCC (15), mentre per l’emocromatosi è stato dimostrato un rischio di HCC 200 volte più elevato rispetto alla popolazione generale. Rimane tuttavia controverso il meccanismo patogenetico del sovraccarico di ferro nello sviluppo dell’HCC( 16). 

 

Epatocarcinogenesi

È ben noto come, in più del 90% dei casi, l’epatocarcinoma si sviluppi su fegato cirrotico, costituendo in questi pazienti la principale causa di morte, con un’incidenza a 5 anni che può superare il 25% (17-20). La cirrosi è infatti una condizione preneoplastica predisponente ampiamente riconosciuta, in virtù della risposta infiammatoria-rigenerativa conseguente alla necrosi epatocitaria,  capace di determinare un aumento della sintesi del DNA nei cromosomi epatocitari. Ciò, nel tempo, predispone ad  un rimaneggiamento casuale delle sequenze di DNA e alla selezione di uno o più cloni epatocitari neoplastici (21,22). Altrettanto noto è il ruolo cruciale dell’angiogenesi sia nello sviluppo che nella progressione dell’epatocarcinoma, dallo stadio iniziale della carcinogenesi allo stadio finale della malattia metastatica (23-26).

L’epatocarcinogenesi è considerata infatti un processo multistep in cui si verifica uno switch degli epatociti verso un fenotipo angiogenico, secondario all’attivazione di oncogeni (come il ras) e all’inattivazione di geni oncosoppressori (p 53), che determina la crescita di nuovi vasi attraverso la migrazione e la proliferazione delle cellule endoteliali in risposta alla secrezione di polipeptidi proangiogenici (VEGF, Angiogenina, Angiopoietina 2, PIGF, FGF, IGF, HGF, eritropoietina, GM-CSF, MCP-1, HIF-1) (27,28).

Tale processo insorge comunemente su fegato cirrotico a partire da lesioni ormai considerate “potenzialmente preneoplastiche”: la displasia epatocellulare e le lesioni nodulari iperplastiche, quali il macronodulo rigenerativo, il nodulo iperplastico adenomatoso ed il nodulo displastico (29,30).

La displasia epatocellulare (LCD) è una alterazione microscopica che può essere confinata in una lesione focale o, in alcuni casi, interessare diffusamente il parenchima epatico affetto da una malattia cronica.

Anthony et al. nel 1973 descrissero una forma di displasia “a grandi cellule”  caratterizzata da 1) aumento delle dimensioni della cellula e del rispettivo nucleo, con mantenimento di un normale rapporto nucleo/citoplasmatico; 2) pleiomorfismo ed ipercromatismo nucleare; 3) presenza di cellule multinucleate (31). Circa 10 anni dopo (1983), Watanabe et al, identificarono una forma meno comune di displasia che definirono “a piccole cellule”, caratterizzata dalla presenza di epatociti di piccole dimensioni con aumentato rapporto nucleo/citoplasmatico e talvolta organizzati in piccoli foci (32). Dati recenti hanno confermato la natura pre-neoplastica della LCD in  parenchima cirrotico (33) e all’interno di piccole lesioni nodulari identificabili all’ecografia in pazienti cirrotici (34).

Le lesioni nodulari iperplastiche, rappresentano il secondo tipo di lesioni pre-neoplastiche associate alla cirrosi. Sono state variamente indicate come “noduli macrorigenerativi”, “lesioni borderline”, “noduli adenomatosi iperplastici” e noduli displastici (35-37). Queste lesioni mostrano una elevata attività proliferativa (38,39) ed il loro potenziale neoplastico è ben documentato, con percentuali di trasformazione neoplastica che oscillano tra il 12 e l’83% (40-43). Nella nostra esperienza, i noduli macrorigenerativi che sono negativi all’esame istologico divengono carcinomi epatocellulari dopo un intervallo medio di 10 mesi (29). Inoltre, la coesistenza di noduli displastici e di piccoli carcinomi epatocellulari è stata dimostrata in fegati espiantati e foci di HCC sono stati trovati anche all’interno di questi noduli  (44,45).

In conclusione, tutte le osservazioni sopra esposte, supportano la teoria secondo cui lo sviluppo dell’HCC nel fegato cirrotico prenderebbe avvio da un semplice nodulo rigenerativo, che in seguito evolverebbe in un nodulo adenomatoso iperplastico con presenza di displasia ed, infine, con foci di HCC. L’evoluzione neoplastica del nodulo displastico è significativamente più frequente nei noduli displastici ad alto grado (63% dei casi) rispetto ai noduli a basso grado (25%), e tra i fattori di rischio vanno ricordati il pattern ecografico iperecogeno ed alcuni parametri istologici quali l’alto grado di atipia cellulare, il rapporto di densità nucleare > 1,5, la presenza di cellule chiare e di steatosi epatocitaria e l’evidenza di un apporto sanguigno prevalentemente di tipo arterioso con comparsa di vasi arteriosi “non triadali” (46,47). Infine, è bene ricordare che non deve essere esclusa la possibilità di una “carcinogenesi de novo”, senza cioè che siano identificabili le fasi preliminari descritte.

 

Diagnosi

Nelle ultime due decadi si è assistito ad una progressiva diffusione, nei paesi ad elevata ed intermedia incidenza di carcinoma epatocellulare, di programmi di screening volti ad una diagnosi precoce della neoplasia nei pazienti cirrotici che, come abbiamo detto, rappresentano la popolazione a maggior rischio di sviluppare HCC. Diversi autori hanno infatti dimostrato che la sorveglianza dei pazienti “a rischio”, consentendo di identificare il tumore ad uno stadio precoce, quando ancora vi sia spazio per terapie curative capaci di influenzare la storia naturale e la prognosi della malattia, rappresenta ad oggi il solo strumento per ottenere un beneficio in termini di incremento della sopravvivenza a lungo termine (48-50). Il successo dei programmi di sorveglianza in associazione alla disponibilità di terapie sempre più efficaci, ha reso possibile infatti un vero e proprio cambiamento dello scenario clinico ed è stato stimato che nei prossimi 10 anni una diagnosi precoce e quindi l’applicazione di trattamenti curativi sarà possibile nel 40-60% dei casi (51) .

Il gold standard degli attuali programmi di screening prevede l’esecuzione di un esame ecografico epatobiliare ogni 6 mesi in tutti i pazienti affetti da cirrosi epatica a varia eziologia (HCV, HBV, alcool, biliare primitiva, emocromatosica) e portatori dei noti fattori di rischio per lo sviluppo di epatocarcinoma (età superiore ai 65 anni, sesso maschile, coinfezione HBV/HCV, eziologia mista, livelli di alfafetoproteina > a 10-20 ng/ml, diabete, classe B o C di CHILD e presenza di displasia a larghe cellule ed elevato indice di proliferazione degli epatociti) (52). Diversi trials hanno infatti confermato la superiorità di un protocollo di sorveglianza a 6 mesi piuttosto che a 12 mesi, mentre non hanno documentato differenze significative nella diagnosi e nel trattamento degli HCC in fase precoce, nel caso di applicazione di un programma di sorveglianza a 3 mesi piuttosto che a 6 mesi (53,54). Per quanto concerne invece l’alfa-fetoproetina, è emerso che tale marcatore non è di per se né diagnostico né specifico e che pertanto non dovrebbe essere dosata in assenza di una associata valutazione ultrasonografica, non rappresentando un adeguato biomarker per la sorveglianza (52,55).

         Nell’ambito della sorveglianza dei pazienti cirrotici, ci si trova spesso di fronte al problema della diagnosi differenziale tra noduli displastici o lesioni pre-neoplastiche ed “early HCC” (o piccolo epatocarcinoma), che per definizione ha un diametro inferiore ai 2 cm.

All’esame ecografico i noduli displastici sono infatti indistinguibili dal piccolo HCC, presentandosi come lesioni nodulari di diametro inferiore a 2,5 cm, di aspetto per lo più ipoecogeno (nel 45%- 85% dei casi dai dati presenti in letteratura) e solo di rado iperecogeno (56). Pertanto, la difficile diagnosi differenziale tra nodulo displastico ed HCC ben differenziato si basa in primo luogo sulla tipizzazione istologica mediante biopsia ecoguidata del nodulo e del parenchima circostante (46) mentre il contributo delle tecniche d’immagine si basa principalmente sul fatto che la transizione da nodulo displastico ad HCC è caratterizzata da un progressivo passaggio da una vascolarizzazione mista arteriosa e venosa (nodulo displastico a basso grado) a una vascolarizzazione prevalentemente  o esclusivamente arteriosa (nodulo displastico ad alto grado e piccolo HCC) (57). Tuttavia, se in alcuni lavori degli ultimi anni è stata dimostrata la non rilevabilità di segnali flussimetrici arteriosi pulsatili all’esame color o power Doppler di noduli che successivamente sono stati diagnosticati come displastici (58-59), in altri è stato documentato che in realtà segnali arteriosi sono rilevabili anche nei noduli displastici, soprattutto se ad alto grado, rendendo in tal caso necessaria un’ analisi spettrale dei segnali arteriosi che, nelle lesioni neoplastiche, sono caratterizzati da una più ampia variazione di frequenza Doppler e da un più lungo tempo di accelerazione sistolica (60).

Infine, ricordiamo che, nella diagnosi differenziale tra nodulo displastico e piccolo epatocarcinoma, si è rivelato molto promettente l’utilizzo dei mezzi di contrasto ecografici di prima generazione che, amplificando il segnale Doppler, hanno reso posssibile dimostrare con il color Doppler la presenza di segnali flussimetrici nella quasi totalità dei piccoli HCC (60-90% dei casi) e in meno del 20% dei noduli displastici. Promettenti si sono rivelati anche i mezzi di contrasto ecografici di seconda generazione che, in studi preliminari, sarebbero stati in grado di dimostrare un incremento contrastografico  arterioso in scala dei grigi  nella maggior parte delle piccole  lesioni focali epatiche neoplastiche in fegato cirrotico (59).

L’Associazione Europea ed Americana per lo Studio del Fegato (EASL ed AASLD) hanno recentemente stabilito le linee guida per la diagnosi precoce di epatocarcinoma in corso di screening ecografico periodico in pazienti cirrotici. Nel caso di noduli di diametro inferiore al centimetro, è necessario sottoporre il paziente ad un follow-up periodico ravvicinato, mentre se i noduli hanno un diametro compreso tra 1 e 2 cm possono essere diagnosticati come HCC sulla base della concordanza di 2 tecniche di imaging (a scelta tra ecografia con mezzo di contrasto, TC e RM ) che evidenzino un comportamento dinamico tipico (ipervascolarizzazione in fase arteriosa e rapida dismissione del mezzo di contrasto in fase portale).  Tuttavia, se la lesione in questione dovesse presentare un comportamento atipico, sarà necessario eseguire un prelievo istologico e citologico per confermarne la natura. Nel caso infine di noduli di dimensioni superiori a 2 cm, è considerata diagnostica per HCC la concordanza di due tecniche d’immagine che evidenzino un comportamento dinamico tipico o, in alternativa, una tecnica di immagine associata a valori di alfafetoproteina plasmatica superiori a 200 ng/L (61). Un recente studio prospettico che ha arruolato 89 casi consecutivi di noduli di diametro compreso tra 0.5 e 2 cm identificati nel corso di un programma di sorveglianza, ha dimostrato come l’utilizzo dei suddetti criteri per stabilire la diagnosi di epatocarcinoma consenta di raggiungere una accuratezza ed una specificità del 100%. Tuttavia, nell’ambito dello stesso studio, la sensibilità si è rivelata modesta: solo infatti il 30% dei casi di HCC è stato confermato mediante l’utilizzo dei criteri non invasivi  secondo le linee guida EASL ed AASLD (62), ad evidenziare la necessità di individuare ulteriori e complementari strumenti diagnostici.

 

Management clinico e terapeutico

L’attuale management clinico e terapeutico dell’epatocarcinoma si basa sulla classificazione di Barcellona, la “Barcelona Clinic Liver Cancer Classification” (BCLC), che correla lo stadio del tumore alla strategia terapeutica da attuare, vista la mancanza di riconosciuti marcatori biologici e genetici associati a specifici outcomes clinici.

Secondo questa classificazione, i pazienti con “early HCC”, raggiungono percentuali di sopravvivenza a 5 anni post-trattamento (resezione epatica, trapianto di fegato o trattamenti ablativi per cutanei quali alcolizzazione epatica percutanea e/o termoablazione a radiofrequenza) comprese tra il 50 ed il 70% (21). I pazienti che invece presentino, al momento della diagnosi, un HCC non resecabile hanno una sopravvivenza mediana inferiore ad 1 anno e possono essere suddivisi in 3 sottogruppi: intermedio, avanzato e terminale.

I pazienti in stadio di malattia intermedio, cioè con HCC multinodulare ed asintomatico senza pattern invasivo, hanno un’aspettativa di vita di 16 mesi e la chemioembolizzazione epatica percutanea si è rivelata capace di determinare un allungamento della sopravvivenza di circa 4 mesi, rimanendo ad oggi lo standard of care per questo sottogruppo pazienti (63).

I pazienti in stadio avanzato, con HCC sintomatico o invasione vascolare e/o diffusione extraepatica di malattia, hanno una sopravvivenza mediana di 6 mesi con outcome variabile a seconda dello stadio di Child. Fino al 2006, i pazienti in questo sottogruppo non potevano beneficiare di alcun trattamento. Dal 2007, a seguito dei risultati di un trial clinico multicentrico randomizzato controllato in doppio cieco di fase III sull’utilizzo del sorafenib, un inibitore orale delle tirosin chinasi (VEGFR2, PDGFR, recettori del c-Kit) e delle serine/treonine chinasi (b-Raf), in pazienti affetti da epatocarcinoma in stadio avanzato, si è assistito ad un cambiamento del management clinico di questa categoria di pazienti (64). Tale farmaco, già utilizzato nel trattamento del carcinoma a cellule renali avanzato, si è dimostrato capace di determinare un allungamento della sopravvivenza non solo statisticamente ma anche clinicamente significativo (sopravvivenza mediana nei pazienti trattati con sorafenib 10.7 mesi vs 7.9 mesi nei pazienti non trattati e raddioppamento del time to progression). Il meccanismo di azione del sorafenib consiste in un effetto inibitorio diretto sulle cellule tumorali ed endoteliali contro 2 principali pathways coinvolti nell’epatocarcinogenesi: quello angiogenico e quello proliferativo (65). Recentemente, sia la Food and Drug Administration che l’EMEA, hanno approvato l’utilizzo del sorafenib nei pazienti con HCC in stadio avanzato.

Infine, i pazienti in stadio terminale, con performance status 3-4 ed una condizione di gravità severa correlata al tumore, hanno un sopravvivenza di soli 3 o 4 mesi.

In conclusione, possiamo affermare che ad oggi la BCLC offre la migliore stratificazione prognostica dei pazienti con epatocarcinoma; tuttavia, nell’immediato futuro dovremmo concentrarci sull’utilizzo delle attuali tecnologie di genomica al fine di identificare profili di espressione genica che migliorino la diagnosi ed il trattamento del carcinoma epatico (66).

 

 

 

 

 

 

 

 

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