I FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE NELLA FASE PRECLINICA DELLA DEMENZA DI ALZHEIMER

A. Servello

 

 

La malattia di Alzheimer è ad oggi la forma più frequente di demenza (60% dei casi totali) e definita da Lewis Thomas, scienziato e saggista, “malattia del secolo”. Ne sono affetti 35 milioni di individui in tutto il mondo, circa 500 mila in Italia, con la diagnosi di un nuovo caso ogni 4 secondi. La prevalenza della malattia di Alzheimer aumenta progressivamente con l’età (1 over 65 aa su 8, 1 over 85 aa su 2,5)1. Tra i fattori di rischio accertati vi sono l’età e la familiarità per il disturbo. L’encefalo nella AD appare ridotto di volume, con una marcata e diffusa atrofia della corteccia frontale e temporale, con perdita neuronale del 30-40%. I neuroni del nucleo basale di Meynert presentano una riduzione numerica particolarmente elevata, nell’ordine del 70-80%. Le aree corticali primarie, il cervelletto, i gangli della base, e diversi nuclei talamici hanno, invece, una minore compromissione. Il processo patologico si manifesta inizialmente a livello delle regioni temporali mediali per poi diffondersi, in maniera pressoché simmetrica nei due emisferi, verso la neocorteccia e verso i nuclei colinergici subcorticali e quelli catecolaminergici del tronco. Il coinvolgimento dell’ippocampo e dell’amigdala nelle fasi precoci della malattia causa una condizione patologica particolare, nota come “deafferentazione limbica”, in base alla quale l’informazione sensoriale trasmessa dalle aree corticali primarie a quelle associative non può più essere integrata tramite il passaggio nel circuito limbico, con conseguenti deficit, non solo in termini di memoria, ma anche di motivazioni e affetti. Gli elementi istopatologici caratteristici della AD sono le placche di beta-amiloide, la degenerazione neurofibrillare e l’amiloidosi vascolare cerebrale. Le placche si ritrovano prevalentemente nella corteccia delle aree associative. Sono costituite da un nucleo centrale di β-amiloide circondato da neuriti distrofici, astrociti reattivi e microglia attivata. Le degenerazioni neurofibrillari sono presenti particolarmente negli strati più profondi della corteccia. Dal punto di vista ultrastrutturale consistono in filamenti elicoidali associati a formare una doppia elica; la componente principale è la proteina tau, usualmente associata ai microtubuli. L’amiloidosi vascolare cerebrale è un’angiopatia determinata da un’infiltrazione di sostanza amiloide nelle pareti vascolari che può essere riscontrata a carico dei piccoli e medi vasi delle leptomeningi e delle arterie della corteccia cerebrale2. La causa della AD ad eccezione delle forme familiari, resta sconosciuta. Le forme familiari ad esordio precoce (prima dei 60 anni) rappresentano una minoranza dei casi (5%), sono caratterizzate da una trasmissione autosomica dominante con mutazioni che interessano i cromosomi 21, 14 e 1. La mutazione sul cromosoma 21 a carico del gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide (APP), un costituente di membrana simile ai recettori cellulari di superficie glicosilati, è responsabile del 2-3% delle forme familiari precoci. Nella maggior parte delle forme familiari precoci (approssimativamente il 90%) sono state rilevate mutazioni a carico del cromosoma 14 (80%) e del cromosoma 1 (10-20%) a livello dei geni che codificano rispettivamente per la presenilina I e II. Le preseniline sono proteine transmembrana localizzate prevalentemente nell’apparato di Golgi e nel reticolo endoplasmatico, dove interagiscono con l’ APP. Nelle forme familiari ad esordio tardivo è stato identificato un pattern allelico riguardante l’apolipoproteina E, una proteina plasmatica che funge da carrier per il colesterolo. Il gene nella popolazione generale è presente in tre forme alleliche, cioè E2, E3 (il più frequente) ed E4. Nelle forme di demenza familaire ad esordio tardivo sarebbe sovraespresso l’allele E4 mentre l’E2 sarebbe sottorappresentato. L’ApoE4 sarebbe in grado di legarsi alla proteina βA favorendone il deposito, mentre l’Apo E3 avrebbe un ruolo protettore, prevenendo la fosforilazione anomala della proteina tau3. La amiloide, la cui rilevante deposizione sembra tipizzare la malattia, è una sostanza insolubile ad azione neurotossica, costituita da fibrille polipeptidiche; il peptide, formato da circa 40 aminoacidi, è denominato βamiloide (βA). Il suo precursore l’APP, può venir catabolizzato attraverso una modalità “secretoria” con produzione di due frammenti non amiloidogenici, ed una lisosomiale che produce una forma solubile della βA. L’accumulo si verifica per una aumentata produzione della proteina solubile, oppure per la produzione di proteina ampliata all’estremità C terminale e dotata di maggiori proprietà polimerizzanti4. Nella storia clinica della malattia oggi vengono riconosciute tre specifiche fasi di evoluzione: la fase preclinica, clinicamente del tutto asintomatica, la fase del deficit cognitivo lieve (Mild Cognitive Impairment) e la fase di demenza. La fase preclinica può essere distinta in una fase in cui la malattia è diagnosticabile con particolari strumenti di indagine ed una in cui la malattia non può essere diagnosticata neppure utilizzando sofisticati strumenti di screening5. Alcuni autori si sono chiesti se una fase preclinica della malattia di Alzheimer (AD) esista davvero e se la conoscenza e la capacità di diagnosticarla precocemente costituisca veramente un vantaggio per il paziente. Per quanto riguarda l’esistenza della fase preclinica, la risposta tende ad essere positiva soprattutto in base a due considerazioni: la demenza di Alzheimer è una patologia lentamente progressiva e quindi è possibile che la sua insorgenza possa precedere il periodo in cui i sintomi si manifestano chiaramente permettendo la diagnosi clinica; e altra considerazione è che nelle forme ereditarie la malattia inizia con la nascita ma si manifesta nell’età adulta, quindi esiste un periodo in cui la malattia è presente ma asintomatica. Il concetto di fase preclinica della AD si applicherebbe solo alla fase di latenza, poiché teoricamente solo in questa fase la malattia è già presente e tenderà a manifestarsi inevitabilmente nel corso del tempo. Partendo da tale presupposto è importante quindi chiedersi come si caratterizza e quanto duri la fase preclinica6. Sulla durata della fase preclinica i dati sono scarsi ma gli studi più affidabili sembrano suggerire che questa fase sia sostanzialmente breve7. Per quanto riguarda l’utilità di individuare tale fase precocemente il vantaggio per il paziente è strettamente legato sia alla possibilità di disporre di terapie efficaci nel controllare il meccanismo patogenetico, sia alla possibilità di permettere al paziente e alla sua famiglia di intraprendere tutte le misure necessarie per affrontare i problemi connessi con la progressione della malattia in una fase in cui il paziente è ancora in grado di prendere coscientemente delle decisioni. Studi longitudinali di popolazione hanno suggerito che i fattori di rischio cardiovascolari svolgono un ruolo importante nello sviluppo della malattia di Alzheimer8. Il confine spesso sfumato tra malattia di Alzheimer e demenza vascolare trova una plausibile giustificazione biologica: si sono accumulate infatti numerose evidenze che le due malattie condividano una serie di fattori di rischio ritenuti inizialmente peculiari delle patologie vascolari. Ipertensione arteriosa, diabete mellito, ipercolesterolemia, obesità, elevati livelli di omocisteinemia plasmatici, presenza dell’isoforma ε4 dell’apolipoproteina E, sono tutti fattori dimostrati avere un ruolo nel danno vascolare contribuendo al meccanismo aterosclerotico, ma sono tutti anche fattori di rischio per la malattia di Alzheimer9. Inoltre grandi trials terapeutici disegnati per la prevenzione secondaria dell’ictus mediante trattamento aggressivo dei fattori di rischio quali ipertensione (PROGRESS) o ipercolesterolemia (SPARCL) hanno evidenziato che oltre alla prevenzione delle recidive di accidenti cerebro e cardiovascolari vi era una ridotta incidenza di demenza sia vascolare che degenerativa. Si pone a questo punto la questione centrale sul ruolo del danno vascolare, dovuto non solo all’occlusione di grandi o piccole arterie, ma anche ad alterazioni del microcircolo, nella genesi della demenza classificata come vascolare e nel processo degenerativo tipico dell’Alzheimer10. Sia la patologia cerebrovascolare che la malattia di Alzheimer hanno come fattori di rischio meccanismi infiammatori, che sono coinvolti nella progressione nel danno vascolare e neuronale: polimorfismi dei geni codificanti citochine e molecole di adesione sono stati dimostrati essere fattori di rischio per l’ictus, demenza vascolare e malattia di Alzheimer; la complessa serie di eventi che segue ad un’ischemia cerebrale vede i meccanismi infiammatori quali attori principali che giocano un ruolo non solo nelle prime fasi ma anche nelle settimane e mesi successivi all’evento interagendo con i processi di danno neuronale quale il meccanismo eccitotossico11. In un’analisi recente di parte della casistica del Framingham Heart study si è visto che le alterazioni dei parametri infiammatori sono associate più significativamente al grado di atrofia cerebrale e quindi al quadro degenerativo che alle alterazioni ischemiche della sostanza bianca; un’altra serie di osservazioni dimostrerebbe che le alterazioni pro-infiammatorie prevalgono nelle fasi più lievi o precliniche di demenza, per poi spegnersi nelle fasi più avanzate12. In tal caso la reazione infiammatoria sembrerebbe coinvolta nei meccanismi iniziali di danno vascolare e neuronale piuttosto che nella progressione della patologia. L’interesse scientifico degli ultimi anni nell’identificare fattori di rischio modificabili per la malattia di Alzheimer, affinchè si sviluppino nuove prospettive della ricerca clinica nel campo della prevenzione e della terapia, ha dato grande attenzione all’influenza di tali fattori di rischio sulla progressione della patologia. Lesioni cerebrovascolari, comuni in pazienti con AD, e fattori di rischio cardiovascolari possono aumentare lo stress ossidativo o attivare una risposta neuro infiammatoria scatenando produzione di sostanza amiloide13. Tutto ciò suggerisce un possibile sinergismo tra AD e malattia cerebrovascolare nel causare il decadimento cognitivo. In un recente studio, condotto dal Washington Heights/Inwood Columbia Anging Project (New York), è stato studiato il ruolo dei fattori di rischio vascolari (storia clinica di patologia cardiaca, stroke, diabete mellito, e ipertensione arteriosa), del fumo di sigaretta, e delle concentrazioni lipidiche plasmatiche (colesterolo: totale, hight-density lipoprotein (HDL-C), low-density lipoprotein (LDL-C) e trigliceridi) come possibili fattori predittivi per la progressione della malattia di Alzheimer14. I 156 pazienti reclutati presentavano già diagnosi di AD all’inizio dello studio (età media alla diagnosi: 83 anni) ed erano stati sottoposti ad un follow up longitudinale per un tempo medio di 3.5 (su 10.2) anni. In conclusione è stato dimostrato che alti livelli plasmatici di colesterolo (totale e LDL-C) e storia clinica di diabete mellito erano associati con un rapido decadimento dello stato cognitivo dei pazienti. Per ogni aumento della colesterolemia di 10-U era associata un aumento di 0.10-SD dello stato cognitivo per anno del follow-up (P<001 per colesterolo totale; P=001 per LDL-C); mentre concentrazioni di HDL-C e trigliceridi non erano  associati con il grado di declino cognitivo. La storia clinica di diabete mellito, invece,  era associata con un aumento dello 0.05-SD nello stato cognitivo per anno. (p = 05); mentre storia clinica di patologia cardiaca o ictus cerebrale sembrava essere predittiva per un più rapido decremento dello stato cognitivo solo in pazienti nel cui genotipo era stata riscontrata la presenza dell’allele ε4 per le apolipoproteine E (APOE ε4). Infine erano stati messi in relazione i vari fattori: le concentrazioni di HDL-C, LDL-C e la presenza di diabete mellito, evidenziando come solo gli alti livelli di LDL-C erano indipendentemente associati con un più rapido decremento dello stato cognitivo dei pazienti. Questo studio, quindi, evidenzia il ruolo dei fattori di rischio vascolari nell’AD, e l’importanza della prevenzione o del trattamento di queste condizioni nel ridurre la progressione della malattia15. Un intervento precoce e tempestivo nel controllo dei possibili fattori di rischio per la demenza  è un aspetto cruciale nella prevenzione, in quanto i meccanismi fisiopatologici che portano allo sviluppo della demenza sono presenti molto prima dell’evidenziazione clinica della malattia. L’ ipertensione arteriosa rappresenta il principale fattore di rischio per stroke, ma anche per demenza; numerosi studi, infatti (Uppsale, HAS, Framingham Hearth Study, ARIC, ecc.), spesso di grandi dimensioni, hanno dimostrato come l’ipertensione sia direttamente correlata allo sviluppo di deficit cognitivo16. L’ Epidemiology of Vascular Aging ha dimostrato la presenza di una stretta correlazione tra ipertensione arteriosa e lesioni della sostanza bianca visibili in RM ed inoltre, nei pazienti trattati con farmaci antipertensivi, la quantità di lesione era inferiore rispetto ai non trattati17. Dalla valutazione degli studi presenti in letteratura emerge, quindi, come l’ importanza delle individuazioni precoci dei fattori di rischio sia l’unica  strategia attualmente utile a ridurre o procrastinare l’insorgenza della malattia di Alzheimer. L’individuazione e il trattamento dei fattori di rischio sembrerebbe inoltre essere maggiormente efficace quando effettuati precocemente nel tempo, in individui apparentemente sani e che non hanno segni clinici di malattia cardiovascolare o di declino cognitivo, ma che ad uno studio clinico approfondito presentano segni di aterosclerosi diffusa o di compromissione del tessuto cerebrale ancora non chiaramente manifesti. Tali evidenze confermano l’importanza di introdurre metodi di screening cerebrovascolare e cardiovascolare in età premorbosa, al fine di poter effettivamente interferire con la manifestazione clinica di malattia e di poter adottare trattamenti terapeutici precoci e, probabilmente, più efficaci nell’interferire con la progressione della malattia.

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Dott.ssa Adriana Servello

Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Sapienza, Università di Roma