MEDICINA NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO: ATTUALITA’ E PROSPETTIVE

 

Vanni Beltrami, Alberto Angelici e Gennaro Nasti

Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente - ROMA

 

Premessa  - (V. Beltrami)

I problemi della medicina sono in ogni continente correlati alle condizioni della salute pubblica e questi a loro volta dipendono dalle condizioni della vita. La condizione umana conosce differenze di base legate al paese dove si nasce, dallo sviluppo culturale individuale, dalla religione praticata e anche dal colore della pelle. Si può in conseguenza osservare come i paesi industrializzati – che occupano un decimo della superficie terrestre e godono dei nove decimi del patrimonio mondiale – abbiano una migliore situazione sanitaria: l’inverso avviene per i paesi cosiddetti in via di sviluppo. Le migliori condizioni della salute che si rilevano nei paesi industrializzati non dipendono infatti soltanto dai progressi delle scienze mediche, ma anche e soprattutto dal miglior reddito individuale. Un paragone tra i due versanti dell’umanità nel campo degli indicatori economici e sanitari – reddito pro-capite, spesa sanitaria, mortalità infantile, educazione primaria, numero di medici ed infermieri – dimostra le abissali differenze esistenti. La povertà deve essere quindi considerata l’elemento determinante di ogni grave situazione della salute: ma non essendo pensabile di poter porre rimedio alla povertà, non resta che tentare un miglioramento nell’organizzazione dei presidi sanitari.

Una pianificazione elaborata a suo tempo dall’OMS prevedeva – per i cosiddetti paesi in via di Sviluppo – l’esistenza di quattro gradi progressivi nella organizzazione territoriale dell’assistenza pubblica. Dovevano innanzitutto essere diffusi sul territorio degli ambulatori con almeno uno se non due infermieri residenziali, una modesta dotazione farmaceutica e l’episodica periodica presenza di un medico “viaggiante” da una località all’altra. Un piccolo ospedale di primo livello (ospedale rurale, bush - hospital, hopital de brousse) era previsto per una popolazione da 10000 ai 300000 abitanti di un territorio di foresta o savana o deserto, lontano da centri abitati maggiori e comunque male collegato a causa di una insufficiente o precaria rete stradale: con disponibilità di una fonte di energia e di acqua potabile. Le attività da svolgere erano quelle di pronto soccorso (chirurgico, traumatologico - ambulatoriale, medico e cardiologico, pediatrico ed ostetrico-ginecologico), diagnostica ambulatoriale, assistenza materno-infantile, degenze a breve termine: le dimensioni per quanto modeste dovevano infatti garantire il temporaneo ricovero di un minimo di dieci - venti pazienti. Il problema più serio da affrontare in questo tipo di istituzione risultava evidentemente quello della qualifica del medico – spesso unico sanitario laureato – che doveva essere in grado di affrontare compiti molto vari: gli si richiedevano infatti competenze di tecnica chirurgica generale, medicina anche tropicale, pediatria, ostetricia, etc. ed inoltre conoscenze di epidemiologia, prevenzione e profilassi, organizzazione ospedaliera e amministrazione, nonché della cultura e delle costumanze anche religiose locali.

Compiti più o meno analoghi erano quelli spettanti ai laureati – spesso due o tre con diverse qualificazioni specialistiche – operanti negli ospedali distrettuali: unità di trenta - cinquanta letti, situate in centri abitati maggiori e suddivise in piccoli reparti distinti, con presenza fra l’altro di un diplomato di qualche livello, quale esperto di anestesia. Ovviamente la possibilità più apprezzabile ed apprezzata era in questi casi quella di presenze di colleghi con i quali dividere compiti e responsabilità. A questi presidi dovevano poter fare riferimento i sanitari degli ospedali rurali meno lontani, per i casi di difficile gestione sul posto.

Prestazioni di un ulteriore livello dovevano infine essere garantite da uno o più ospedali di “riferimento”, spesso funzionanti anche come centri didattici, situati nei maggiori centri urbani e suddivisi in reparti anche specialistici, con personale adeguato sia medico che paramedico e relative attrezzature. In questi centri era garantita, seppure con qualche difficoltà organizzativa, la possibilità di esercitare unicamente la pratica professionale nel campo della propria educazione accademica, disponendo di colleghi adeguatamente preparati ai compiti di altra specificità.

Come si è accennato, il problema maggiore dal punto di vista della scelta del medico riguardava l’ospedale che si è definito di primo livello e del quale si sono definite le caratteristiche.

L’esperienza di molti collaboranti con una buona qualificazione sanitaria, provenienti in genere da paesi industrializzati, ha portato a ritenere che per affrontare una situazione di tanto impegno non ci si potesse rivolgere che a soggetti con una formazione essenzialmente chirurgica generale, ma che avessero integrato le loro nozioni con una frequentazione realmente formativa sia di reparti dove si praticassero interventi specialistici (ostetrici e traumatologici in particolare), sia di reparti di medicina generale e pediatria: oltre ad aver seguito corsi di organizzazione ospedaliera e medicina comunitaria.

Di fatto, il chirurgo che presti la sua opera in un paese cosiddetto in via di sviluppo, specialmente in ospedali periferici, deve essere preparato tecnicamente ma anche psicologicamente ad una attività, a circostanze e problemi profondamente “altri” da quelli ai quali era abituato in patria. Le malattie possono essere tipicamente locali e quindi quasi sconosciute, oppure – se conosciute – presentarsi con aspetti del tutto inconsueti per il medico di formazione europea: per di più, si tratta di affezioni in fase molto avanzata, in pazienti denutriti ed immuno - depressi, i precedenti patologici dei quali rimangono sconosciuti. E mentre gli strumenti di diagnosi sono scarsi od assenti, si impone spesso la necessità di attuare anestesie locali e di affrontare scelte terapeutiche dettate da condizioni estreme, od anche avendo coscienza che sarebbero piuttosto di competenza di un esperto specialista.

A tutte queste difficoltà si aggiungono le problematiche di una comunicazione verbale – che diviene possibile quasi sempre soltanto per interposto interprete – e gli ostacoli frapposti da pregiudizi, superstizioni e codici religiosi: ed infine la condizione personale di solitudine, oltre che professionale anche umana, per la scarsa possibilità di stabilire dei rapporti interpersonali adeguati.

 

Come è cambiata l’attività chirurgica nelle missioni umanitarie  - (A.Angelici)

L'assioma che per anni ha giustificato molte attività chirurgiche in Paesi disagiati: 'quello che si può fare, anche di modesto profilo, è meglio di niente' , non è più vero; la vignetta del chirurgo che, nudo, opera sotto la palma non deve più avere che il significato di una provocazione: l'attività umanitaria ha assunto infatti negli ultimi anni una differente caratterizzazione che ne ha meglio definito i profili.

Sono sostanzialmente cambiati gli scenari dell'intervento, le richieste in tema di sanità da parte dei soggetti dell'azione umanitaria, gli obiettivi, le finalità e gli attori dell'umanitario.

Negli anni il divario tra i Paesi poveri e quelli a più elevato profilo tecnologico e maggiore reddito si è drammaticamente approfondito, tanto da rendere di fatto insanabile il gap e irrinunciabile il ricorso all'aiuto di Paesi più ricchi. Un ulteriore elemento ha fatto crescere in modo esponenziale i poveri del mondo: le guerre, di ogni tipo e per ogni causa, tanto più feroci per quanto più povere le popolazioni coinvolte. La guerra avrà distrutto le strutture ed il sistema sanitario del Paese, gli operatori sanitari, in particolare i chirurghi, avranno disimparato ad eseguire gli interventi più semplici a favore di una chirurgia di guerra che tollera imperfezioni e complicanze, giustificandole con la situazione di grave mancanza di tutto. Il chirurgo straniero che opera in quel contesto dovrà affrontare non soltanto la situazione attuale di per sé disperante, ma dovrà svolgere la propria attività finalizzandola il più possibile alla formazione del personale sanitario, consapevole del fatto che il futuro dei Paesi in via di sviluppo sconvolti da una guerra, è certamente più problematico dello stesso periodo di belligeranza.

 L’intervento formativo in questo caso è assolutamente irrinunciabile, considerando che l’obiettivo da perseguire non è tanto quello di rimettere in moto una attività chirurgica sufficiente a rispondere alle esigenze del momento, quanto piuttosto quello di creare i presupposti che consentiranno una normale attività operatoria quando le condizioni di emergenza saranno terminate; questo significa programmare l’intervento umanitario che avrà da subito l’obiettivo di creare uno staff medico locale in grado di formare altri medici e chirurghi con uno standard qualitativo idoneo.

Non sono affatto da sottovalutare in questi scenari, le condizioni di lavoro particolarmente difficili e destabilizzanti nelle quali i medici espatriati si trovano ad operare, spesso correndo rischi per la propria integrità fisica.

Da molti anni la presenza nei Paesi in via di sviluppo di un numero sempre maggiore di Agenzie Internazionali e di Organizzazioni Umanitarie, ha consentito la creazione di un vero e proprio sistema di ‘controllo di qualità’ incrociato che, influenzando il giudizio degli enti erogatori dei fondi, ha selezionato gli operatori sanitari in generale.

L’attività chirurgica consente una valutazione immediata dei risultati che, se positivi, rafforzano l’immagine dell’organizzazione umanitaria in grado di garantirli.

Le stesse autorità sanitarie dei Paesi in cui si svolge l’intervento sono divenute più esigenti nel richiedere garanzie sul personale impiegato, in particolare i chirurghi, fissandone in molti casi gli elementi curriculari: specializzazione, anni di laurea, attività già svolta nei Pvs. Va inoltre sottolineato che sempre più frequentemente i governi richiedono l’intervento umanitario ponendo prioritariamente gli obiettivi da raggiungere ed esercitando una costante attività di monitoraggio delle attività svolte. Consapevoli di questa nuova situazione le organizzazioni umanitarie hanno modificato i criteri di selezione del personale sanitario, facendosi spesso carico di organizzare corsi di formazione, direttamente o attraverso strutture accreditate, universitarie o ospedaliere maggiori.

Va anche sottolineato che spesso i governi delle nazioni che richiedono l’intervento umanitario, in ambito chirurgico formulano proposte dettate dal desiderio di intraprendere attività chirurgica in settori specialistici o addirittura ultraspecialistici (es cardiochirurgia) che rispondono piuttosto a richieste ‘di immagine’ che non alle richieste di salute della popolazione: in un bilancio costo-beneficio questo aspetto deve essere attentamente valutato.

Il chirurgo è lo specialista che, a parità di costi, è in grado di svolgere molteplici attività (a condizione di una salda onestà professionale!) e quindi di rendere di più; l’attività chirurgica invece richiede, per poter essere svolta, un supporto tecnologico che, per quanto ridotto all’essenziale, è irrinunciabile e a costo elevato.

Naturalmente la maggiore disponibilità di tecnologia consente l’esecuzione di una attività chirurgica di maggiore profilo, ma d’altra parte necessita di personale medico in grado di utilizzarla..

Certamente l’uso delle tecnologie appropriate rappresenta una scelta irrinunciabile, considerando appropriate quelle tecnologie che potranno essere poi gestite direttamente dalla classe medica del paese ospitante, sia per quello che riguarda la sostenibilità dei costi di acquisto e di gestione (acquisto dei materiali di consumo, manutenzione possibile in loco, disponibilità dei pezzi di ricambio) che per il ‘know how’ necessario al loro utilizzo. 

Innegabile invece il ruolo che Internet e la rete telematica nelle sue differenti possibilità di utilizzo, dalla semplice comunicazione via email alle più sofisticate tecniche di telemedicina, hanno assunto: la disponibilità dell'accesso alla rete ha se non cancellato, certamente ridotta la sensazione di solitudine e di isolamento che negli anni passati ha caratterizzato l'attività di tanti chirurghi sparsi in luoghi difficili.

Per molti di noi è ancora un ricordo assai vivo il profondo disagio rappresentato dalla impossibilità a scambiare pareri con colleghi esperti prima di affrontare interventi difficili ed irrinunciabili!

La formazione dovrà mirare, in modo calibrato sul contesto nel quale si svolge l’intervento, a due obiettivi fondamentali: la formazione in ambito strettamente chirurgico ed in quello più ampio del management per il corretto uso delle risorse disponibili. L’obiettivo finale deve essere quello di poter trasferire, alla fine del progetto, competenze utilizzabili in modo autonomo, sostenibili dal Paese, anche attraverso l’introduzione di meccanismi di ‘cost sharing’ che impongano agli utenti la partecipazione al pagamento delle prestazioni sanitarie erogate.

Le necessità formative dei chirurghi devono essere considerate almeno quanto le richieste in termini di salute della popolazione, tenendo ben presente che ai bisogni di quest’ultima dovranno essere date risposte dalla classe medica locale formata, nel corso dell’intervento umanitario.

Molti anni fa non si parlava di ‘Missioni Umanitarie’, ma piuttosto di ‘Attività Missionarie’, visto che erano soltanto strutture religiose e religiosi di ogni ordine che si recavano nei Paesi più poveri per svolgere, in modo in genere piuttosto artigianale anche se sempre generoso, questo genere di attività. Poi, pian piano, le porte si sono aperte a strutture laiche, sono cominciate a comparire le organizzazioni non governative di volontariato, gli stessi governi nazionali hanno organizzato strutture specializzate per attività di cooperazione nei settori più diversi.

Sono state soprattutto le Nazioni Unite che hanno professionalizzato l'intervento umanitario, creando una serie di agenzie specializzate nei differenti settori, con compiti di proposizione e gestione dei progetti propri, finanziamento di progetti affidati ad altri organismi, controllo dei progetti finanziati, coordinamento dei progetti in corso e/o proposti attraverso le loro agenzie.

Da una decina di anni anche la Comunità Europea è diventata attrice dell’umanitario con strutture sovranazionali che propongono, gestiscono, finanziano e coordinano una grande mole di progetti, sia d’emegenza che di sviluppo.

E’ di quest’ultimo periodo l’attribuzione della qualifica di ‘operatori umanitari’ anche agli appartenenti alle forze armate presenti in molti Paesi per partecipare ad operazioni finalizzate alla riconquista e al mantenimento della Pace.

Quest’ultima evoluzione del concetto di 'operatore umanitario' merita una attenta riflessione per le peculiari caratteristiche che riveste: per quanto riguarda il settore delle attività mediche sono la Sanità Militare e le Organizzazioni ad essa riferite le strutture  deputate a svolgerle, ed in tutte le occasioni, anche le più recenti sono state offerte dimostrazioni di alta professionalità. Ma la Sanità Militare deve per definizione, interessarsi in modo precipuo della salute del contingente militare che accompagna, costituito da personale giovane ed in buone condizioni fisiche, nutrito, vaccinato, medicalmente sorvegliato. E' naturale che tutta questa struttura venga utilizzata anche per assistere la popolazione, ed è comprensibile che questa assistenza venga offerta utilizzando le stesse risorse per tutti, anche se le ricadute in termini di sanità pubblica per la popolazione locale non saranno trascurabili. Si pensi ad esempio alle farmaco resistenze indotte dall'uso di antibiotici sofisticati, ad alto costo e spesso non più reperibili sul mercato interno.

Anche l'aspetto formativo è del tutto disatteso; queste considerazioni nulla tolgono al valore dell'assistenza offerta dalla Sanità Militare alle popolazioni vittime della guerra o di catastrofi naturali.

Certamente il mondo dell' 'umanitario' sta uscendo da una lunga fase di ‘volontarismo’ che, per quanto appassionante, non risponde più alle necessità del settore.

La Chirurgia e la Primary Health Care, sono i perni intorno ai quali ruotano le iniziative sanitarie nei PVS, e le caratteristiche dei progetti devono essere quelle descritte, anche in considerazione del fatto che i flussi migratori e le ricadute in termini di sanità nei paesi ospitanti gli immigrati incideranno sempre più pesantemente sulla sanità dei paesi stessi.

La rigida separazione dei due mondi, quello sviluppato e quello in via di sviluppo, non esiste più, e le frontiere non hanno mai rappresentato barriere insormontabili per le richieste di sviluppo e di salute delle popolazioni più povere.

Questi concetti devono trovare posto nei programmi di insegnamento ai corsi di Laurea delle Facoltà Mediche perchè non rappresentino più una ‘sorpresa’ per molti medici ed infermieri!

La formazione dei medici provenienti da Paesi in via di sviluppo deve mirare a creare non una finta aristocrazia di medici e di chirurghi frustrati dalla impossibilità di rendere attuali le nozioni apprese in paesi tecnologicamente più avanzati e più ricchi, ma piuttosto una classe medica colta in modo appropriato, in grado di trasferire conoscenza.

E' irrinunciabile, anche per una gestione globale delle problematiche sanitarie, che la formazione sanitaria dei paesi in difficoltà avvenga all'interno dei paesi stessi, in modo coerente con le risorse disponibili. Queste ultime debbono essere implementate, sulla base delle linee guida dettate dai governi nazionali, secondo una politica di sviluppo sostenibile.

L’attività umanitaria, come si vede, è entrata in una fase ‘strutturata’ e ‘finalizzata’, certamente più professionale, ma non togliamole il trasporto umano e quel pizzico di senso dell’avventura che tanto ce l’hanno fatta amare!

 

L’università “La Sapienza” di Roma a Socotra: collaborazione per la creazione di un modello sanitario

 (G. Nasti)

L’arcipelago di Socotra (Repubblica dello Yemen) è situato nella parte nord-ovest dell’Oceano Indiano, a circa 350 Km a sud della penisola arabica. Il lungo isolamento dalle vicine terre arabe ed africane ha determinato un alto livello di endemismo naturalistico e culturale.

L’assistenza sanitaria è garantita dalla presenza di un ospedale in Hadibu (centro principale dell’isola di Socotra) e 14 Heath Units di cui soltanto cinque sono al momento funzionanti.

Il “Progetto Socotra” si inscrive nell’ambito delle attività che l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” svolge nello Yemen grazie ad un accordo di collaborazione bilaterale con l’Università di Sanaà che ha come obiettivo la formazione del personale medico ed infermieristico yemenita  e prevede lo scambio di docenti tra le due Università per brevi periodi.

In accordo con il Direttore dell’Health Office di Socotra, tale collaborazione si è estesa al Socotra Conservation and Development Programme (SCDP, progetto finanziato dall’UNDP) ed ha come fine la formazione del personale medico ed infermieristico locale ed il sostegno all’amministrazione per quanto riguarda il corretto management delle risorse sanitarie disponibili.

Tale collaborazione si è finora realizzata mediante la rotazione di medici dell’Università “La Sapienza” a cui l’SCDP garantisce il rimborso delle spese di viaggio, di assicurazione, il vitto e l’alloggio.

Dal mese di Febbraio 2004 al mese di Giugno 2005 sono state effettuate missioni di tre mesi da parte di 5 specialisti italiani (due chirurghi, due pediatri ed uno specialista in medicina interna). Sono stati valutati in totale più di 4000 pazienti e sono stati effettuati 54 interventi chirurgici.

Oltre alle attività ospedaliere ed ambulatoriali sono state effettuate numerose attività collaterali che hanno portato alla creazione di un ambulatorio di cardiologia, di ecografia e di una medicheria attrezzata per il Pronto Soccorso medico e chirurgico.

Sono stati elaborati e diffusi protocolli terapeutici riguardanti le malattie pediatriche più incidenti per razionalizzare le terapie che prima erano più o meno svincolate da criteri scientifici.

In collaborazione con l’SCDP si è proceduti, inoltre, alla ristrutturazione dei locali dell’Ospedale che ospitano i reparti di medicina donne, di ginecologia e ostetricia, di pediatria ed è stata avviata la ristrutturazione delle cucine, dei servizi igienici e del reparto di chirurgia.

Questo progetto, anche se ancora in evoluzione, sottolinea l’importanza della formazione professionale del personale locale eseguita da personale dedicato ed altamente qualificato, ma soprattutto, evidenzia l’importanza e la validità di interventi non a carattere sostitutivo, ma sostenuti da programmi dedicati alla creazione di una buona classe medica e paramedica locale.

Il management delle risorse sanitarie appare ancora una volta il settore nel quale l’azione del personale espatriato è meno accettata ma è, comunque, di prioritaria importanza.

 

CONCLUSIONI – (V. Beltrami)

A conclusione di queste considerazioni, si può affermare che delle qualità specifiche sono indispensabili per svolgere i molteplici problemi che si creano in una così complessa situazione. Sono necessarie una forte motivazione morale – quasi una vocazione – associata ad una specifica attitudine; grande pazienza; sentimenti di “pietas” ed “humilitas”, nel senso latino del termine; e non ultimo il ricordo costante della poesia di un poeta afro-americano, vecchia di quasi mezzo secolo:

“E quando un giorno la morte di ogni corpo

Sarà una zolla per la nuova primavera

Nessuno chiederà se quella terra

Fu un tempo carne bianca o carne nera”.